L'affare Psichiatria

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Sergio Turone

vice-presidente della Commissione d’inchiesta sull’assistenza psichiatrica in Abruzzo

 

L’ A F F A R E          P S I C H I A T R I A

 

____________________

 

Contributo  alla  stesura  della  relazione  sui  lavori


condotti  dalla  Commissione   d’inchiesta

 

 

Consiglio regionale d’Abruzzo

L’ Aquila, settembre 1993

 

 

 

PREMESSA

 


PERCHE’ QUESTO FASCICOLO


Il presente scritto - lungi dal voler anticipare la relazione conclusiva che la Commissione consiliare d’inchiesta sull’assistenza psichiatrica in Abruzzo dovrà presentare al Consiglio regionale entro il 15 ottobre quale frutto di un lavoro collettivo - è una proposta di stesura che il vice-presidente della Commissione offre agli altri commissari proprio con l’intento di agevolare la sintesi d’insieme dei fatti esaminati. Si tratta dunque di un contributo che, pur elaborato in forma compiuta, è aperto alle integrazioni che gli altri commissari - o almeno quelli di loro che ne condivideranno l’impostazione generale - vorranno proporre in forma di riflessioni aggiuntive, di ritocchi, chiarimenti interpretativi, ulteriori dati, eccetera.
Sono quattro i motivi che mi hanno suggerito di dedicare a. questo lavoro le vacanze d’agosto, per poter presentare agli altri commissari ed alla stampa - dunque all’intera opinione pubblica abruzzese - un così ampio ed articolato scritto, in anticipo sui tempi conclusivi che la Commissione si è dati.
Il primo motivo è il felice precedente costituito da un’altra Commissione d’inchiesta: quella sulla Formazione professionale, nella quale pure esercitai il ruolo di vice-presidente. Nel marzo del 1992, a conclusione di quei lavori, presentai un “libro azzurro” dichiarando che si trattava di una piattaforma aperta al contributo di tutti. Quell’iniziativa fu assai ben accolta sia dalla stampa abruzzese, sia da gran parte dei membri di quella Commissione d’inchiesta, che sulla mia proposta lavorarono arricchendola. Di quel “libro azzurro” mi chiese copia il Ministero del Lavoro.
Il secondo motivo è che, se, al termine dei lavori di una Commissione d’inchiesta, una prima bozza di relazione viene resa pubblica, l’intera cittadinanza è in grado di seguire il successivo dibattito mirante ad integrarla od eventualmente a modificarla: in altre parole, il confronto fra i commissari sui contenuti da dare alla versione definitiva della relazione avviene alla luce del sole, in omaggio a quei valori di trasparenza solitamente più invocati in astratto che praticati in concreto.
Il terzo motivo è più specifico. La Commissione d’inchiesta sulla psichiatria - come in sintesi è riferito nelle pagine che seguono - ha avuto vita travagliatissima. Nei venti mesi circa della sua esistenza, infatti, ha conosciuto ben tre presidenti, e in due delicati periodi è stata addirittura priva di un presidente. Pertanto il vice-presidente ha di fatto rappresentato, nella conduzione dei lavori, il maggior elemento di continuità. Ciò da una parte gli conferisce, al di là degli aspetti formali, una responsabilità politica maggiore; e dall’altra gli consente di poter testimoniare con diretta cognizione di causa in merito alle numerosissime audizioni, alla richiesta di documentazione, ai fatti accertati attraverso l’inchiesta.
C’è infine un quarto motivo che m’induce ad assumermi individualmente la responsabilità politica e giuridica del presente fascicolo. Ed è la doverosa necessità di respingere i velenosi attacchi personali di cui sono stato bersaglio, da parte di qualche settore di sindacalismo aziendale, per atti compiuti nello svolgimento delle mie funzioni: per esempio convocare persone che la Commissione d’inchiesta aveva deciso di ascoltare, o trasmettere atti alla magistratura. A tali aggressioni diffamatorie (gravi sul piano socio-politico generale perché fanno pensare a un ambiguo connubio fra iniziative sindacali ed interessi imprenditoriali, ma inammissibili anche per la carica di gratuita ingiuria ad personam che esprimono) ho il dovere di replicare con l’esplicita durezza che meritano, senza peraltro necessariamente coinvolgere altri gruppi o consiglieri.
Nei propositi di chi lo ha redatto, il presente documento vuoi essere un contributo per una relazione unitaria. Beninteso: qualora la logica delle difese d’ufficio del sistema di potere dovesse ancora una volta, come in passato, prevalere sull’intento di accertare la verità, ancorché scomoda, e se da altri dovesse essere presentata una relazione edulcorata o reticente, sarà l’opinione pubblica a valutare la serietà o meno delle diverse posizion
i.

Sergio Turone


N.B.: Anche del presente fascicolo, come di tutto l’incartamento relativo ai lavori della Commissione d’inchiesta, sarà inviata copia alle Procure della Repubblica dell’Aquila, di Pescara, di Chieti.

 

 

 

 

 

 

Consiglio regionale d’Abruzzo.
Commissione d’inchiesta sull’assistenza psichiatrica.
Il vice-presidente Sergio Turone.

 

 


L’ AFFARE   PSICHIATRIA

 

 


IN QUINDICI ANNI ALMENO MILLE MILIARDI


Il sistema di potere politico-amministrativo che fin dalla nascita dell’Istituto Regione ha condizionato l’Abruzzo ha trovato nell’organizzazione psichiatrica -- -vale a dire in quella che dovrebbe essere l’assistenza ai malati di mente -- uno dei canali più massicciamente produttivi di corruzione politica e di arricchimento. Lo sperpero accertato ammonta,  in lire attuali,  a oltre mille miliardi. E’ questa in estrema sintesi la conclusione cui è giunta la Commissione d’inchiesta che è stata costituita dal Consiglio regionale alla fine del 1991 e che ha lavorato dai primi mesi del 1992 fino al luglio 1993.
Quantificare lo sperpero -- nei casi di cattiva amministrazione e corruttela -- è sempre operazione ardua, che suggerisce doverosa cautela nella formulazione di cifre; ma la Commissione d’inchiesta -- pur fra le molteplici difficoltà in cui ha operato e che sono per esempio testimoniate dai tentativi d’intimidazione e dalle ripetute dimissioni di propri membri, volta a volta sostituiti -- è riuscita ad acquisire gli strumenti conoscitivi per una valutazione minimale approssimativa e dimostrabile. Si tratta, a valore costante 1992 della lira, di un saccheggio non inferiore a 1.050 miliardi: e tale somma è riferita soltanto al denaro che la Regione  ha versato a cliniche private, cui di fatto è stata delegata senza alcun controllo l’assistenza psichiatrica almeno dal 1978 in poi.
Siamo consapevoli che in queste vicende il danno sociale è incalcolabilmente superiore al dato aritmetico contabile, sia perché le abissali lacune dell’assistenza psichiatrica pubblica si traducono in sofferenza atroce, che i malati mentali e i loro familiari vivono sulla propria pelle che non
è misurabile, sia perché gli effetti dell’abuso amministrativo
producono in generale una sfiducia nelle Istituzioni, costituendo una permanente minaccia per la sopravvivenza stessa della democrazia. . Abbiamo tuttavia voluto aprire questa relazione con un dato aritmetico, per dimostrare come la Commissione d’inchiesta abbia proceduto su basi di accertata concretezza e di riscontri rigorosamente oggettivi.
Ci sembra pertanto doveroso -- pur senza sopravvalutare il dato aritmetico circoscritto rispetto all’assai più lesivo danno sociale -- spiegare subito come è stato possibile giungere alla somma indicata di 1 .050 miliardi.
Il punto di partenza è un documento ufficiale di provenienza governativa, e più precisamente una lettera che -- dopo ripetute richieste da parte della Commissione -- l’assessorato alla Sanità ha scritto alla Commissione stessa in data 2 giugno 1993. Nella lettera si parla del rapporto finanziario intercorso fra la Regione da una parte e le due cliniche private dall’altra: Villa Pini e Villa Serena. Si precisa che le suddette case di cura non sono convenzionate per la lungodegenza psichiatrica e si forniscono i seguenti dati relativi al 1992.

Casa di cura “Villa Pini d’Abruzzo”

1.   Pazienti ricoverati da oltre un anno: 350

2.   Spesa per ricoveri sostenuta dalla ULSS di Chieti nell’anno 1992: £. 34.573.914.606;

3.   Diaria giornaliera: £. 181.398.


Casa di cura “Villa Serena”

1.   Pazienti ricoverati da oltre un anno: 313;

2.   Spesa per ricoveri sostenuta dalla ULSS di Pescara nell’anno 1992: £. 35.602.427.904;

3.   Diaria giornaliera: £. 175.264.



La prima riflessione che viene spontanea su tali cifre riguarda i pazienti ricoverati da oltre un anno, i quali sono, al di là di ogni dubbio, lungodegenti. Su questo dunque c’è una prima evidentissima illegalità, perché le due cliniche non sono convenzionate per la lungodegenza. Sappiamo perfettamente che a tale rilievo si può obiettare sostenendo che i malati mentali purtroppo esistono, che le famiglie non hanno la possibilità di accollarsene il doloroso peso, e che di fatto le cliniche private esercitano un ruolo di supplenza rispetto a una struttura pubblica che di fatto, nelle province di Chieti e di Pescara, ha rinunciato per decenni ad esercitare qualsiasi ruolo. Anzi, ha rinunciato addirittura ad esistere, perché l’amministrazione regionale ha lasciato campo libero all’iniziativa privata. Non è un caso che in altre province della nostra regione, per esempio a L’Aquila (dove, nonostante difficoltà e lacune una struttura pubblica come l’ospedale psichiatrico di Collemaggio funziona bene, grazie all’impegno di medici, paramedici, amministratori e degli stessi malati, stimolati a sviluppare, le residue risorse di autonoma intelligenza) la speculazione privata trovi nel settore psichiatrico solo spazi molto esigui, o non ne trovi affatto.
Ma è bene chiarire fin d’ora che la Commissione d’inchiesta -- sorta in un ambito politico-amministrativo quale il Consiglio regionale e con compiti d’indagine sulla gestione politica dell’assistenza psichiatrica - non si è neppure posta il problema di esprimere giudizi sull’operato delle cliniche private che dalla situazione hanno tratto vantaggi economici. La logica imprenditoriale può essere condivisa o combattuta sul piano poli tico-culturale, ma nessuno può negare che all’imprenditore sia consentito utilizzare tutti gli spazi di profitto offertigli dal mercato. Se nella vicenda in questione ci sono state violazioni di legge -- da parte di amministratori pubblici come di operatori privati -- la Commissione d’inchiesta si rimetterà in proposito al giudizio della magistratura. Fin dall’inizio dell’estate di quest’anno la Commissione, - avendo ritenuto che molte delle cose apprese durante le numerose audizioni potrebbero costituire “notitia criminis”, — ha inviato i verbali dei propri lavori alle Procure della Repubblica di Chieti, di Pescara e dell’Aquila, perché siano i giudici, se lo ritengono, a indagare sugli eventuali contenuti penali di comportamenti su
cui la Commissione d’inchiesta può esprimere ed esprime sole giudizi di condanna politico-amministrativa. Anche il testo della presente relazione sarà inviato alla magistratura, a completamento della documentazione che la magistratura stessa ha già ricevuto od acquisito mediante sequestri operati in Regione.
Tornando, a conclusione di questo primo paragrafo, - alle cifre contenute nella lettera inviata alla Commissione d’inchiesta il 2 giugno 1993 dall’assessorato alla Sanità, è sufficiente un calcolo elementare per apprendere che i fondi pubblici erogati alle due citate cliniche private nel 1992 ammontano complessivamente a 70 miliardi più
qualche spicciolo. Ora, poiché tale sistema vige dal 1978, cioè da 15 anni, non è improprio moltiplicare per 15 la spesa del 1992. . Il risultato della moltiplicazione dà giusto quella cifra di 1.050 miliardi che abbiamo fornito all’inizio.
Una riflessione, infine, sulle diarie. Come abbiamo visto, la retta giornaliera praticata da Villa Serena per ciascun paziente, nel 1992, è stata di £. l75mila e rotti, mentre quella di Villa Pini è stata di l8l mila lire e qualcosa. I malati sono in stragrande maggioranza autosufficienti e docili. Vivono in camerette ben tenute di due - quattro letti, fruiscono dì un buon vitto. Se, per ipotesi assurda, le spese potessero essere valutate secondo criteri alberghieri, una giornata di soggiorno comporterebbe una diaria ragionevole di 40.000 lire. In più c’è da calcolare però il costo delle terapie, che può variare da caso a caso. Ma quasi tutti i lungodegenti - che costituiscono la maggioranza dei ricoverati- ricevono purtroppo solo terapie consistenti nella somministrazione di psicofarmaci. Quanto costa una pillola di Valium? Alla divisione neuropsichiatrica dell’ospedale Mazzini di Teramo (pubblico) l’ufficio di statistica sanitaria della Direzione ha compilato una scheda da cui risulta che il costo farmaceutico per giornata di degenza è di duecentodieci (210) lire.

Teniamo peraltro a ribadire che, se le diarie vigenti lasciano alle cliniche private margini di profitto spropositati, la responsabilità non è tanto degli imprenditori - che nel cercare il massimo guadagno fanno il loro mestiere- quanto dei politici che, negli anni in cui la DC abruzzese e i suoi alleati minori esercitavano su ogni ganglio della vita pubblica un controllo assoluto, hanno consentito o favorito lo sviluppo di un meccanismo così drammaticamente finalizzato allo sperpero di denaro pubblico.

Se i mille miliardi, perduti in una dissennata gestione il cui risultato è che oggi in Abruzzo i malati mentali sono di fatto lasciati a sé stessi o alle disperate famiglie, fossero stati investiti nelle strutture pubbliche che per legge dovrebbero essere distribuite sul territorio, oggi i malati potrebbero essere assistiti secondo criteri assai più umani, vivendo nelle famiglie, e trovando nei pressi della propria casa il supporto terapeutico di cui abbisognano per essere seguiti e stimolati a pensare, anziché addormentati con gli psicofarmaci.

Non occorre andare all’estero o nelle regioni ricche del nord-Italia per trovare esperienze terapeutiche soddisfacenti nel campo dell’assistenza psichiatrica. Basta andare nel Molise, che è una regione più povera della nostra, ma dove, quanto meno nel campo della psichiatria, si sono ottenuti, come la Commissione d’inchiesta ha accertato mediante utili audizioni, risultati positivi a costi ridotti.


 

 

L’ESEMPIO DEL MOLISE


In merito all’esperienza molisana è stato di grande interesse ciò che ha dichiarato alla Commissione d’inchiesta nell’audizione del 12 gennaio 1993 il dr. Tartaglione, primario del servizio di diagnosi e cura della ULSS di Isernia. Certamente un paragone fra il Molise e l’Abruzzo deve essere condotto con margini di riserva relativi soprattutto alla differenza rappresentata dalla consistenza demografica delle due regioni. Appare evidente che in una regione in cui il numero degli abitanti, e pertanto anche dei malati di mente, è ridotto, pone problemi un tantino meno complessi, rispetto a quelli che si registrano viceversa in una regione con una popolazione assai più numerosa. Detto questo, non si può non rilevare come l’esperienza molisana -- presumibilmente agevolata anche dal fatto che in questa piccola regione non operavano cliniche psichiatriche private in grado di costituire una concorrenza prevaricante nei confronti dei servizio pubblico -- costituisca un modello da seguire. E’ imperniato sul sistema della casa-famiglia. Questa, beninteso, non è un’esclusiva molisana. Il criterio delle case-famiglia è adottato in tutti i Paesi civili, è adottato in diverse regioni italiane, ha dato e dà buoni frutti anche nel nostro Abruzzo, come dimostra il caso già citato dell’ospedale psichiatrico di Collemaggio a L’Aquila. Perché non si riesce a generalizzare l’uso di questo criterio nella nostra regione? Le case-famiglia sono comunità che gli stessi malati di mente autogestiscono, e nelle quali vivono, avendo certamente l’aiuto e l’appoggio della struttura pubblica, che però in questi casi non si traduce in un fattore oppressivo di limitazione burocratica delle libertà del malato, ma, al contrario, riesce a stimolarne le capacità di vita autonoma.
I sanitari molisani del settore hanno fatto ricorso in qualche caso, prima di riuscire a mettere a punto il loro sistema di assistenza psichiatrica fondato sul criterio della casa-famiglia, anche alle cliniche private abruzzesi, che infatti hanno ospitato e in parte ancora ospitano malati provenienti dal Molise, come pure da altre regioni d’Italia. Questa delle presenze di malati non
abruzzesi nelle cliniche private di Pescara e Chieti, malati per i quali naturalmente sono le Unità sanitarie locali abruzzesi, cioè la Regione Abruzzo, a versare le rette, è un’altra delle anomalie di questo settore. Beninteso: qua non si vuole minimamente contestare il diritto di tutti i cittadini italiani, a qualsiasi regione appartengano, di fruire delle strutture che ciascuna altra regione abbia creato; l’anomalia cui facevamo riferimento nasce quando, come sovente avviene, i pazienti provenienti da altre regioni italiane e ospitati da cliniche private abruzzesi assumono la loro residenza presso la clinica stessa. Si tratta dunque non di malati che, nati, poniamo, in Calabria o in Lombardia piuttosto che in Umbria o nel Molise, avevano già la loro residenza in Abruzzo nel momento in cui hanno dovuto cominciare ad esser curati, ma di malati espressamente importati da altre regioni e fittiziamente fatti risultare residenti in Abruzzo, con recapito anagrafico proprio alla sede della clinica in cui sono ospitati. Non ci si può non domandare a questo proposito perché mai la Regione Abruzzo debba assumersi l’onere di  questi degenti, soprattutto dal momento che parecchi di loro provengono da regioni dove esistono strutture pubbliche, o in subordine anche private, non certo meno efficienti di quelle abruzzesi.
Ma per tornare all’esperienza molisana, sono molto significative le dichiarazioni rese dal prof. Tartaglione, il quale ha riferito come le case-famiglia consentano un ottimo inserimento nella società della stragrande maggioranza dei malati di mente. In merito poi al fatto che anche degenti provenienti dal Molise siano stati e in parte siano ancora ospitati da cliniche private abruzzesi, Tartaglione ha parlato di una cinquantina di ricoverati a Villa Pini e di una decina di ricoverati molisani a Villa Serena: ed ha aggiunto che quando i responsabili sanitari molisani hanno provato a farsi, per così dire, restituire i pazienti molisani per riportarli nella loro regione dall’Abruzzo e per inserirli nelle case-famiglia, hanno sorprendentemente trovato difficoltà. Questa la frase testuale del prof. Tartaglione: “Non li hanno mollati, perché comunque erano pazienti comodi; il cronico, tutto sommato, non dà fastidio. Ci hanno mollato i più turbolenti”.
Si tratta di una frase talmente lineare che non ha bisogno di interpretazioni. Il ricoverato psichiatrico che Tartaglione definisce “comodo”, è tale perché poco costoso, nella stragrande maggioranza dei casi, rispetto alla retta che la clinica privata incassa per ospitarlo. Risulta insomma evidente anche da questa informazione fornita dal primario di Isernia che nella maggior parte dei casi i margini di profitto per la clinica privata sono cospicui: tanto cospicui che la clinica stessa è riluttante a rimandare alle regioni d’origine i ricoverati di altre regioni che potrebbero essere collocati in sedi terapeutiche più idonee. In altre parole, il ricoverato - a parte il caso di quelli definiti turbolenti, che infatti vengono restituiti volentieri -  rappresenta per la clinica privata un affare.

 

 

LE DENUNCE MINISTERIALI IGNORATE


Ciò che lascia allibiti coloro che hanno condotto questa inchiesta e il fatto che le numerose e gravi irregolarità oggi da noi denunciate erano già state autorevolmente rilevate in passato da organismi governativi che le avevano dimostrate e riferite in documenti ufficiali dì estrema chiarezza. Resta sgomentevolmente arduo capire come mai quelle autorevoli e documentate denunce siano rimaste lettera morta, e come mai le autorità politico-amministrative della regione abbiano continuato a intrattenere con le cliniche private rapporti viziati da quelle irregolarità che gli organismi ministeriali della Repubblica avevano stigmatizzato. Un esempio significativo e lampante ci viene dalla ispezione condotta nel 1986 dal settore 3 del Servizio ispettivo del Ministero del Tesoro, Ragioneria Generale dello Stato, che reca il titolo: “Verifica amministrativo-contabile alla Unità locale socio-sanitaria n. 11 di Pescara (effettuata dal 30 settembre 1985 al 6 febbraio 1986)”. Il corposissimo documento, di complessive 201 pagine, reca la data del 24 aprile 1986 e porta la firma del dr. Giovanni Mazzonello, dirigente superiore dei Servizi ispettivi dell’Ispettorato generale di finanza.
In merito alla consistenza eccessiva delle diarie accordate dalle convenzioni in uso fin dal 1978  in Abruzzo, il documento firmato dal dr. Mazzonello cita a pag. 84 la convenzione con la casa di cura “Villa Serena”. In quella prima convenzione, come è riportato a pag. 87 del medesimo fascicolo, fu stabilito che per ciascun degente ricoverato a Villa Serena la Unità sanitaria avrebbe versato la retta giornaliera di £.
96.426. Per contro il documento Mazzonello cita il caso contemporaneo della Unità sanitaria locale di Nizza - Monferrato, in Piemonte, la quale, a seguito della chiusura del manicomio di Alessandria, era stata costretta a sistemare i malati di mente presso una casa di ricovero privata, e aveva concordato per il 1985 una diaria “variante dalle £. 42.935 alle £. 45.486”. La differenza è abissale, e non ci resta che condividere la meraviglia espressa dall’alto funzionario governativo Giovanni Mazzonello in merito al trattamento finanziario in uso in Abruzzo: meraviglia accentuata dal fatto che le cifre in questione riguardano il 1985, e che da allora sono trascorsi 8 anni, senza che minimamente questa longanimità della Regione Abruzzo, verso gli operatori privati, sia stata in qualche modo corretta. La relazione Mazzonello contiene anche elementi di curiosità che dimostrano una assoluta disinvoltura anche sul piano dell’aritmetica spicciola. Leggiamo infatti a pag. 88 del documento ministeriale: «E’ stata presa in esame la contabilità del mese di settembre 1985, dalla quale risulta che sono state liquidate 19.745 giornate di degenza. Poiché i posti-letto sono in totale 650 (558 più 92) le giornate di degenza liquidabili nel mese di settembre potevano essere al massimo 19.500. L’ULSS dovrà, pertanto, far conoscere come è stato possibile superare detto massimale».
In conclusione di capitolo, la relazione Mazzonello rileva: «Le ingenti somme erogate per i ricoveri volontari non possono non destare delle rilevanti perplessità per cui è necessario effettuare il predetto accertamento».
Non risulta a questa Commissione d’inchiesta che gli accertamenti sollecitati dal funzionario del Ministero nel 1986 siano stati effettuati; e in ogni caso la Commissione ha accertato che, anche ammesso per assurdo che siano stati compiuti, le situazioni d’irregolarità riscontrate dal Mazzonello non sono state minimamente corrette.




 

GLI ARRICCHIMENTI: COLPA DELLA LEGGE ?


Una conferma indiretta ma esplicita della denuncia contenuta nel dossier Mazzonello è stata riscontrata dalla Commissione d’inchiesta nelle affermazioni fatte dal dr. Petronio, responsabile del Servizio diagnosi e cura di Chieti, in una delle audizioni condotte dalla Commissione nella sua prima fase, quando presidente era ancora Pasquale Della Monica. In merito a Villa Pini, il dr. Petronio afferma per esempio: «Per quello che io posso assicurarvi, per verifiche fatte da me, almeno nel periodo di cui sono responsabile, è una casa di cura che presenta tutti i comfort che certamente noi, in ospedale, non siamo in grado di assicurare». Ci sembra una testimonianza significativa, perché viene da una fonte non sospetta, la quale conferma un dato clamorosamente vistoso: l’assistenza psichiatrica pubblica in provincia di Chieti non ha minimamente la possibilità di condurre qualsiasi forma di concorrenza all’assistenza psichiatrica privata, la quale pertanto ha campo libero e possibilità di espandersi. Ed ecco, in proposito, poco più avanti, un’altra affermazione interessante fatta nella medesima seduta dal dr. Petronio, responsabile del Servizio diagnosi e cura di Chieti: «Se si parla di una spesa sanitaria eccessiva nel campo psichiatrico» - dichiara Petronio - «io sono il primo a dire che la legge, purtroppo, ha consentito a queste strutture di arricchirsi - se vogliamo usare un termine dispregiativo - però l’arricchimento, signori miei, non è che dipende da noi, ma dalla legge che ha consentito il ricovero».
Non ci interessa qui stabilire se il verbo arricchirsi abbia o meno significato dispregiativo: ci sembra in ogni caso interessante che il dr. Petronio parli in modo esplicito, a proposito delle case di cura psichiatriche della sua provincia, di arricchimento, anche se nega in proposito responsabilità del Servizio di cui è dirigente. Più avanti Petronio, prendendo lo spunto da un’affermazione del consigliere Del Gatto, riconosce che le leggi nazionali di riforma della psichiatria prevedono l’esistenza, prima che si arrivi alla misura estrema del ricovero, di “strutture complementari intermedie”, alle quali i malati possano far ricorso per essere assistiti anche quando vivono presso le loro famiglie. Petronio ammette che nella inesistenza di “strutture intermedie” ci può essere una responsabilità pubblica; riconosce anzi addirittura che «questa critica è un discorso ragionevolissimo, un discorso che mi trova pienamente consenziente». Sottolineata la complessità della patologia psichiatrica, il dr. Petronio ammette anche che una diffusione sul territorio di un’assistenza imperniata su strutture complementari intermedie consentirebbe anche una riduzione della spesa e prende nota del fatto che in altre regioni tale passo sia stato già compiuto “con qualche risultato”.
Proseguiamo nell’esame della deposizione fatta dal dr. Petronio. Il responsabile del Servizio diagnosi e cura di Chieti dichiara poco più avanti testualmente: «Sono il primo a dire che è una spesa eccessiva» (si riferisce alla spesa a carico della Regione Abruzzo per l’assistenza psichiatrica). A questo proposito ci sembra interessante il rilievo circa il fatto che buona parte di tale spesa ricada sulla Regione Abruzzo per assistiti che provengono da altre regioni italiane. Ecco un’altra citazione testuale dalle dichiarazioni del dr. Petronio: «Se andiamo a vedere, almeno per Villa Pini, il 30, 40, 50, 60% delle persone, come turnover o no, provengono da altre ULSS o da altre regioni». Il medico suggerisce anzi
«di verificare qual è la spesa storica che sostiene la Regione Abruzzo per ricoverati che sono quanto meno di fuori regione».
Siamo dunque tornati, attraverso la deposizione del dr. Petronio, sull’argomento che - come si è visto alcune pagine addietro - è stato trattato anche dal dr. Tartaglione di Isernia, il quale, nell’illustrare alla Commissione i contenuti della piccola, ma significativa riforma attuata nel Molise, ha anche ricordato che sovente i tentativi compiuti dai sanitari molisani per riavere indietro i malati residenti nella loro regione che avevano trovato costosa ospitalità presso cliniche private abruzzesi, si sono trovati di fronte a dinieghi o in ogni caso a comportamenti riluttanti, perché è del tutto evidente che - con l’enormità delle rette vigenti in Abruzzo, - alle amministrazioni delle cliniche private conviene avere il maggior numero possibile di degenti, anzi di “lungodegenti”, anche a costo di reperirli fuori dalla nostra regione. Subito dopo queste affermazioni il membro della Commissione Sergio Turone formulò al dr. Petronio la seguente domanda: «Circa la media della lunghezza delle degenze, a Villa Pini, ci sono delle statistiche?».
Sorprendente è stata la risposta del dr. Petronio: «Non è che ci sono delle statistiche vere e proprie. Ci sono dei resoconti annuali, da cui si potrebbero calcolare queste misure». Segue quest’altra significativa ammissione: «Però, in effetti, che a Villa Pini ci sia un residuo manicomiale, di quello che era il manicomio, così è,  purtroppo ci sono. Però ditemi voi qual è il medico funzionario o responsabile, come sono io, che può far fronte a questo problema. Ditemi se io posso negare l’autorizzazione a una persona che ha questa patologia, dicendo:
ti dimettiamo e vai altrove”. Dove deve andare?».
Come nel corso della presente relazione si e già  più
volte chiarito, le responsabilità della situazione e delle eccessive spese non possono gravare sui singoli medici, ma sono responsabilità politiche, risalenti alle amministrazioni regionali che nel corso dei decenni hanno creato in Abruzzo questa situazione estremamente costosa, e tutt’altro che utile ai fini delle terapie dei malati.
Ma ricolleghiamoci alla deposizione del dr. Petronio. In merito alla durata delle degenze, il responsabile del Servizio diagnosi e cura di Chieti una risposta abbastanza precisa, anche se non nelle cifre, l’ha fornita. Ha dichiarato, infatti: «Per quanto riguarda la durata delle degenze, sono degenze lunghissime, della durata di anni».
Insomma, pur nell’estrema complessità di una situazione confusa, il mosaico delle aberranti condizioni in cui versa l’assistenza psichiatrica in Abruzzo si è andato delineando con sempre maggiore precisione. Questa ammissione sulle degenze lunghissime, infatti, trova riscontro nel contenuto della lettera, di cui abbiamo diffusamente parlato all’inizio della presente relazione, inviata in data 2 giugno 1993 alla Commissione d’inchiesta dall’assessorato regionale alla Sanità, lettera in cui si parla di degenze superiori alla durata di un anno indicate rispettivamente in 350 per quanto riguarda Villa Pini e in 313 per quanto riguarda Villa Serena. Da altri documenti risulta che ci sono pazienti in entrambe le cliniche ricoverati da ben più di un anno, ma anche da 2, da 3, da 5 anni e in qualche caso da otre 10 anni.

 

 

 

«GENTE STRACCIATA, LACERA, CI FERMAVA»


I cittadini, gli amministratori, i magistrati che leggeranno la presente relazione vorranno - speriamo - giustificare gli estensori se questo scritto non ha la linearità e l’omogeneità stilistica che sarebbe auspicabile e che forse ne renderebbe più agevole la lettura. Ma il materiale verbalizzato che è scaturito dai lavori di questa Commissione è così ampio e complesso, che la ricerca di una sintesi congrua richiederebbe molti più mesi di lavoro di scrittura per poter rispondere alla necessità di uno stile più scorrevole. E’ anche possibile che, nonostante i nostri sforzi d’essere al massimo esaurienti, la necessità di sintesi ci induca a trascurare o a riassumere troppo i contenuti di alcune delle deposizioni che pure potrebbero rivestire qualche interesse. Sicuramente densa di elementi rilevantissimi è stata la deposizione resa il 12 gennaio 1993 alla Commissione d’inchiesta dalla dr.ssa Ines Filiaggi, primario del Servizio di psichiatria, ULSS di Castel di Sangro. La dr.ssa Filiaggi, peraltro, è stata in grado di fornire una panoramica ampia dell’assistenza psichiatrica in Abruzzo, perché, prima di assumere il primariato a Castel di Sangro, aveva lavorato a lungo all’ospedale di Teramo e, per un periodo minore, a Pescara.
Chi fosse tentato di fare propria la tesi qualunquistica, e purtroppo molto diffusa in tutta Italia, secondo cui la legge di riforma psichiatrica (quella che per intenderci porta il nome di Basaglia e che combatté la logica manicomiale) sia stata un errore, e che tutte le disfunzioni attuali derivino da quella riforma, farà bene a riflettere su quanto ha riferito in proposito la dr.ssa Filiaggi. La legge, ossia la legge di riforma, non ha dato i risultati sperati perché è stata nella maggior parte dei casi applicata male o è rimasta incompiuta, ma occorre dire senza alcuna eccezione che si trattato di una svolta di civiltà indispensabile e del tutto positiva. Sono le inadeguatezze di una classe politica deteriore (e qui il  discorso vale per tutta la situazione nazionale, anche se il caso Abruzzese presenta elementi peculiari particolarmente allarmanti) che hanno impedito alla legge Basaglia di esprimere tutta la sua felice carica innovativa e che a volte l’hanno trasformata, a livello operativo, in un pretesto di arricchimento abusivo, di corruzione, in ultima analisi di estremo disagio per i pazienti e per le loro famiglie.
Si legga infatti ciò che in proposito ha detto la dr.ssa Ines Filiaggi, la quale ricorda molto bene com’era la situazione precedente la riforma: «So bene che la legge 180» - dice la teste - «ha vari difetti; devo però dire che, se qualcuno ha vissuto, così come l’ho vissuta io, l’esperienza dell’ospedale psichiatrico (io l’ho vissuta dall’altra parte, non come utente, ma come medico) non può che benedire il fatto che si sia addivenuti a cercare di modificare quella che era l’assistenza psichiatrica».
Il seguito della testimonianza resa dalla dottoressa contiene frasi agghiaccianti:
«La situazione di Teramo, allora, era grandemente arretrata - l’ho detto - ma che significa arretrata? Significa, per esempio, che quando si entrava nei reparti di lungodegenza (i reparti per acuti, allora, erano all’interno dell’ospedale psichiatrico) non si poteva camminare; signori miei, non si camminava, la gente ci correva attorno, stracciata, lacera, ci fermava, ci bloccava sulle scale; io non riusci vo a passare, e gli infermieri mi dicevano che non avevano mai visto un medico. Quindi, arrivava il medico e loro gli correvano intorno. Una situazione agghiacciante». Se prima della riforma le condizioni dell’assistenza psichiatrica pubblica erano così inumane e catastrofiche, era ovvio che anche la più saggia delle riforme potesse migliorare soltanto di poco e soltanto in alcune zone la situazione precedente. Come si è detto, per quel che riguarda l’Abruzzo, la situazione è certamente migliorata a L’Aquila, più che altro per l’intelligenza e la solerzia di alcuni operatori sanitari che hanno riformato l’ospedale di Collemaggio in direzione delle tesi sostenute a suo tempo dal dr. Basaglia. In altre strutture pubbliche la situazione è rimasta non molto diversa da quella descritta dalla dr.ssa Ines Filiaggi, anche perché nella maggior parte dei casi l’assistenza psichiatrica è rimasta affidata a medici e infermieri che erano cresciuti alla professione nella logica funesta dell’assistenza manicomiale.   Riferisce ancora la dr.ssa Filiaggi, a proposito della maggioranza dei suoi colleghi medici conosciuti nel corso del suo lavoro: «Erano inadeguati dal punto di vista tecnico, e molti di loro lo sono ancora. Devo dire che questa inadeguatezza tecnica ha pesato molto sul fatto che poi, per la psichiatria in Abruzzo, le cose siano andate come sappiamo». Anche «il personale infermieristico era assolutamente scadente». La dr.ssa Filiaggi ha riferito, infatti, che pure l’assistenza spicciola prestata al paziente, non direttamente dal medico, ma su direttiva del medico, era impropria e inadeguata. «Diciamo che questo personale allora scadente» - è un’altra affermazione della Filiaggi - «è stato assunto con certe modalità, perché agli infermieri psichiatrici - - come sapete molto bene - - non si richiedeva il diploma di infermiere professionale, e non erano nemmeno infermieri generici, ma si facevano dei corsi ad hoc all’interno dell’ospedale, di 3-6 mesi, dopodiché venivano assunti come avventizi ed erano variante ricattabile nel tempo. Questo è il personale che lì ho trovato e che ancora c’è».
Ora, dal momento che le strutture periferiche intermedie sul territorio non esistono, od esistono solo occasionalmente in quantità del tutto insufficiente, e dal momento che i “residui manicomiali” continuano ad essere affidati a strutture deteriori, vecchie, scadenti, tutto ciò spiega molto bene come mai sia stato lasciato tanto spazio alla psichiatria privata e a quello che lo stesso dr. Petronio - come abbiamo riferito più sopra - definisce l’ ”arricchimento” degli imprenditori privati del settore.
Rispondendo poi a una domanda su ciò che era stato fatto in campo psichiatrico a Castel di Sangro, dove la Filiaggi ora è primario del relativo servizio, la signora ha risposto: «Non è stato fatto niente, a Caste! di Sangro. Io sono lì da un mese e per quel che mi risulta fino a
quando sono arrivata io, non c’era assolutamente niente».


 

 

IL CLAMOROSO CASO DI CHIETI


Circa le presumibili difficoltà da cui è scaturito questo nefando immobilismo a Castel di Sangro, la dr.ssa Filiaggi ha detto di non sapere quali potessero essere, ed ha aggiunto: «Io so che nel 1988, la ULSS di Caste! di Sangro aveva deliberato l’istituzione del dipartimento di igiene mentale e di assistenza psichiatrica, che nel 1988, la Regione ha dato il suo placet; che i concorsi per le figure mediche sono stati avviati e indetti nel 1990; che il mio concorso, l’unico espletato finora, è stato espletato nel 1992». E gli altri concorsi? Risposta: «I concorsi sono stati banditi; se e quando saranno espletati non lo so». Oltre a non aver creato nuove strutture pubbliche idonee a rendere operativa la riforma dell’assistenza psichiatrica promossa da Basaglia, la Regione Abruzzo ha di fatto eliminato strutture pubbliche che esistevano e sia pure parzialmente funzionavano. In proposito la dr.ssa Ines Filiaggi - la quale ha dimostrato di possedere vaste conoscenze sulla situazione psichiatrica in Abruzzo, conoscenze accumulate grazie ad anni di studio e ad una passione umana eccezionale - afferma che il caso più clamoroso è stato quello di Chieti. Ascoltiamo ancora le sue parole: «Quando c’era il Centro di salute mentale provinciale a Chieti, c’era un organico pieno; c’erano 5 medici psichiatri: si facevano gli ambulatori periferici: venivano a controllare i loro pazienti che erano ricoverati - questo lo ricordo molto bene - all’ospedale psichiatrico di Teramo (l’ospedale psichiatrico di Teramo, come voi sapete, era interprovinciale, quindi accoglieva anche pazienti provenienti dalle altre province). Noi lavoravamo e collaboravamo con questa gente: poi, arrivate le ULSS, non so come e perché ci siano state vicende anche legate agli spostamenti dei vari medici ecc., i quali poi non sono stati rimpiazzati». Pertanto, il Centro di salute mentale e provinciale teatino è di fatto scomparso.
Solo in epoca recentissima, quando la nostra Commissione d’inchiesta aveva già accertato queste pesanti deficienze politico-amministrative, la Giunta regionale ha proposto la ricostituzione di un Centro psichiatrico a Chieti. Questo è significativo di un grave vizio politico: si tende a non agire fino a quando le denunce non
assumano la dimensione dello scandalo. E’ sorprendente peraltro che l’ assistenza psichiatrica abbia comportato per la Regione spese rilevantissime anche nel settore pubblico, con risultati del tutto modesti o addirittura inesistenti. «Nel 1988» - ha detto ancora la dr.ssa Filiaggi - «la Regione ebbe un finanziamento in conto capitale dal Ministero della Sanità per l’implementazione di un Osservatorio epidemiologico per la psichiatrica. Sono stati fatti i primi passi ma poi tutto si è fermato.  Adesso siamo nel 1993, sono stati anche spesi dei soldi, perché si sono comprati dei computer e sono stati anche distribuiti, però un sistema informatico significa che poi, oltre ad avere l’hardware, lo si faccia». Successivamente, a una domanda del commissario consigliere Del Gatto, che chiedeva se quei computer fossero stati collegati o fossero rimasti non collegati, la dr.ssa Filiaggi ha risposto: «Non collegati, naturalmente. sono rimasti lì così, e quando poi non si implementa il sistema centrale, non si dice come si devono raccogliere i dati, non si dice che tipo di software bisogna usare, non si va avanti». In proposito, il consigliere commissario Del Gatto, che in qualità di medico si era già potuto documentare su questa vicenda dello stanziamento compiuto cinque anni prima dalla Regione per l’Osservatorio epidemiologico, ha fornito nel corso della medesima seduta alcune precisazioni: «Nel 1988, il Ministero della Sanità erogò un finanziamento in conto capitale alla Regione Abruzzo, di 450 milioni; di questi, 200 milioni erano finalizzati all’implementazione di un Osservatorio epidemiologico per la psichiatria. Posso ben credere che forse 200 milioni non erano sufficienti, però ci fu questo finanziamento iniziale. Furono acquistati questi computer, nel 1988-1989 (ci sono le delibere) poi forniti alle sedi periferiche; furono fatte anche delle riunioni, e poi tutto si è fermato lì».

 

 

 

UN COMPORTAMENTO SINDACALE SOSPETTO


Nelle prime righe della presente relazione si è accennato fuggevolmente alle mille difficoltà in cui ha operato la Commissione d’inchiesta e si è detto delle ripetute dimissioni che hanno caratterizzato la vita dell’organismo. Sarà bene ora - prima di proseguire nell’esposizione di quanto la Commissione ha accertato durante i suoi lavori - spiegare un po’ più diffusamente come e perché e da parte di chi si è creata questa serie di dimissioni. La prima vicenda traumatica intervenuta ad intralciare i lavori della Commissione è stata una conseguenza indiretta dei fatti che il 30 settembre del 1992 videro entrare in carcere l’intera Giunta presieduta dal dr. Rocco Salini. Poiché nelle settimane successive la maggioranza posta in crisi dal clamoroso intervento giudiziario insistette per ricostituire una Giunta di continuità rispetto a quella deposta, la prima conseguenza è stata che molti dei consiglieri regionali di maggioranza facenti parte della Commissione d’inchiesta hanno dovuto abbandonare la Commissione stessa per entrare nella nuova Giunta presieduta da Vincenzo Del Colle. Non è stato facile trovare chi fosse disposto a presiedere la Commissione d’inchiesta che fino a quel momento era stata presieduta da Pasquale Della Monica, divenuto assessore dopo la drammatica crisi del settembre-ottobre 1992. Finalmente la maggioranza designò per la presidenza della Commissione l’ex assessore socialista Romano Liberati, il quale accettò senza nascondere la propria riluttanza a quel ruolo.
Nella nuova versione, la Commissione d’inchiesta, così ampiamente rinnovata, dovette di fatto tornare su alcuni dei temi già trattati. Forti contrasti si ebbero all’interno della Commissione in merito all’opportunità o meno di ascoltare un testimone che aveva scritto all’allora presidente Della Monica dichiarandosi disponibile a riferire cose a suo giudizio interessanti: don Giuseppe Di Martino, già dipendente della clinica Villa Pini, e già sindacalista nelle fila della CISL. Alcuni commissari di maggioranza osservarono che il Di Martino aveva motivi di rancore personale nei confronti della proprietà della clinica stessa e che per talune affermazioni polemiche fatte in passato a proposito di presunte irregolarità gestionali riscontrate nella casa di cura era stato condannato in primo grado. Altri membri della Commissione, tuttavia, sostennero che fosse in ogni caso opportuno ascoltare doti Giuseppe Di Martino, pur tenendo conto delle motivazioni soggettive che potevano averlo indotto a chiedere di essere ascoltato. Dopo una serie di divergenze, all’interno della Commissione prevalse la decisione di ascoltare il sacerdote, che nel frattempo aveva lasciato la militanza sindacale ed ora è parroco a Torrevecchia. Dall’esterno della Commissione d’inchiesta intervennero in modo abbastanza polemico, circa la decisione di ascoltare don Giuseppe Di Martino, anche il titolare di Villa Pini, dr. Vincenzo Angelini, con una lettera ai membri della Commissione, e alcuni settori del movimento sindacale. Particolarmente aspri nella polemica, sia contro il Di Martino, sia contro quei membri della Commissione che avevano sostenuto l’opportunità di ascoltarlo, si manifestarono i membri dei sindacati interni, vale a dire dei sindacati aziendali. Questo è un elemento che suscita qualche sorpresa, perché, se è vero che i sindacati aziendali motivarono la loro solidarietà nei confronti dell’azienda con l’esigenza di difendere i posti di lavoro (peraltro da nessuno minacciati), resta curioso il fatto che rappresentanze sindacali aziendali si muovano così unanimemente all’unisono con la direzione dell’azienda i cui lavoratori tutelano. Di norma il sindacato è la controparte rispetto al padrone: ecco perché rileviamo, quanto meno, la bizzarria dell’atteggiamento tenuto in questa vicenda dai rappresentanti sindacali aziendali di Villa Pini e anche quello non molto dissimile, per quanto più moderato nei toni, tenuto dai sindacati regionali di categoria.
In merito alla condotta dei sindacalisti di Villa Pini, sia consentito in questa sede al vice-presidente della Commissione d’inserire nel testo una riflessione personale, non necessariamente destinata ad apparire nel testo definitivo della relazione proprio per la sua natura di rilievo formulato in prima persona.
Quando, in assenza di un presidente, io presi la decisione di rendere operativa, in qualità di facente funzioni del presidente, quella che era stata una decisione presa dalla Commissione (ascoltare un ex sindacalista che in precedenza aveva scritto all’allora presidente della Commissione chiedendo di essere ascoltato) per quell’ovvio adempimento fui oggetto, da parte dei sindacati aziendali, di una sorprendente aggressione. In una lettera inviata al presidente del Consiglio regionale e - chissà poi perché - al presidente della quinta commissione, Filippo Pollice, costoro giunsero a definirmi “opportunista” e di fatto m’indicarono quale nemico del sindacato, perché avrei messo a rischio, con la mia ostinazione nel voler chiarire la verità sulla possibilità di abusi e gestioni irregolari, i posti di lavoro.
Circa la mia presunta ostilità al sindacato, chiunque abbia letto “Storia del sindacato in Italia” (Laterza, 1973, oggi in edizione aggiornata fino al 1992) e diversi altri miei libri dedicati al tema, sa che, attraverso le metodologie oggettive dello storiografo, ho sempre messo in evidenza il ruolo estremamente positivo svolto dal movimento sindacale. Circa l’accusa di “opportunismo”, solo individui totalmente disinformati sulla vita e le opere della persona che ingiuriano potevano ignorare che tutta la mia carriera di giornalista e di studioso è stata caratterizzata da traversie che ho subìto proprio per il rifiuto di ogni opportunismo. D’altronde, gli studi storiografici che in quasi quarant’anni ho condotto sul sindacalismo italiano ed europeo mi hanno permesso di verificare una costante realtà. Opportunisti miserevoli sono di norma proprio quei sindacalisti aziendali che - sbandierando a parole grande combattività antagonistica rispetto al padrone e in difesa dei lavoratori - poi nei momenti decisivi, chissà come mai, prendono invariabilmente le difese del padrone, contro l’interesse della collettività e dei lavoratori stessi che rappresentano.
Nel caso specifico, la pretesa di accreditare la tesi secondo cui gli atti di una Commissione consiliare d’inchiesta - incaricata d’indagare su eventuali abusi verificatisi nella gestione dell’assistenza psichiatrica - costituirebbero un attentato contro l’occupazione, mettendo in pericolo i posti di lavoro in una clinica, è tanto irrazionale e sgangherata, quanto significativa. In primo luogo non si capisce perché i bilanci di un’impresa privata (clinica o altro) debbano essere prosperi solo a patto che la conduzione della stessa sia scorretta. In secondo luogo, anche se così fosse, né i1avoratori di Villa Pini né quelli di qualsiasi altra struttura sanitaria avrebbero nulla da temere dall’eventuale denuncia di irregolarità riguardanti gestioni imprenditoriali e amministrative. Anzi, il sindacalismo pulito e credibile, quindi efficiente, è proprio quello che - sottraendo all’imprenditore l’arma psicologica del ricatto sull’occupazione – accoglie con favore eventuali indagini politico-amministrative rivolte ad eliminare possibili sacche d’abuso o corruzione.
Quando i sindacalisti aziendali di Villa Pini, in data 29 luglio 1993, si sono presentati alla Commissione d’inchiesta, in folta delegazione, hanno voluto essere ascoltati separatamente dalla delegazione delle segreterie CGIL-CISL-UIL di categoria. Hanno utilizzato tutto il loro ampio tempo per attaccare la Commissione e per elencare le ragioni che avrebbero dovuto indurci a non ascoltare don Giuseppe Di Martino. Circa i densi fascicoli di denuncia presentati dal sacerdote, i sindacalisti d’azienda non hanno portato un solo elemento concreto atto a smentirne i contenuti, ma hanno affermato che il prete avrebbe «la mente accecata da odiosi rancori», sarebbe «uno dei personaggi più oscuri nella storia sindacale della nostra regione». Ed ecco l’accusa rivolta ai membri della Commissione: «Ma voi lo innalzate a paladino della giustizia, mettendo agli atti le sue ripetute e stantie denunce, affrettandovi ad inviare le stesse alle varie Preture di competenza...». Le “ripetute e stantie denunce”, sempre secondo le affermazioni fatte in Commissione dai sindacalisti di Villa Pini, e risultanti a verbale, sarebbero state fatte dal prete per «mettere in discussione l’esistenza dell’azienda, con probabili ripercussioni sui livelli occupazionali».
Ascoltare un testimone, come è ovvio, non significa ritenerlo depositario della verità o farne un “paladino della giustizia”. Sorprende insomma, e insospettisce, il frenetico zelo con cui si è tentato - fortunatamente senza successo - di limitare la nostra libertà d’indagine. Se ci fosse qualche logica nella tesi aberrante secondo cui sollecitare trasparenza e moralità amministrativa equivarrebbe a minacciare i livelli occupazionali, l’accusa di attentare all’occupazione dovrebbe essere rivolta anche ad un sindacato confederale come la FISOS-CISL abruzzese, che - a quanto si apprende da “Il Messaggero” del 5 settembre 1993 in cronaca di Chieti - ha presentato alla Procura della Repubblica teatina un esposto riguardante proprio la clinica Villa Pini e l’amministratore straordinario. della ULSS di Chieti, accusato di aver favorito con finanziamenti indebiti la clinica privata in questione a proposito del centro di riabilitazione istituito presso la clinica stessa. Il ricatto dell’occupazione ricalca d’altronde una vecchia strategia imprenditoriale. Il 9 settembre 1993 il “Centro”, prendendo lo spunto da un’inchiesta aperta dalla Procura di Chieti sui bilanci di Villa Pini per iniziativa dì un medico sindacalista (il dr. Andrea Battistella) che aveva presentato un esposto, intervistò il titolare della clinica, Vincenzo Angelini. Questi affermò di aver concordato all’inizio dell’anno con l’assessore alla Sanità una riduzione del 6% sulla somma annuale versata alla clinica dalla Regione, «ben sapendo che il 1993 sarebbe stato un anno di vacche magre, così come lo sarà il ‘94». Poi espresse un pronostico allarmante, affermando che, se a Villa Pini i margini del profitto si riducessero, «non meno di duecento persone rimarrebbero senza lavoro».
E’ ovvio che una strategia imprenditoriale imperniata sulla minaccia di licenziamenti possa creare nei sindacati aziendali - quando non siano sorretti dalla risorsa dell’autonomia -  - una sindrome di accerchiamento che li sospinge a cercare protezione sotto l’ala dell’imprenditore, anche a costo di apparire conniventi nella responsabilità su eventuali illeciti. L’audizione di don Giuseppe Di Martino risultò contenere elementi che potevano costituire reato, perciò - come si è detto in precedenza-  la Commissione ritenne opportuno inoltrare alla magistratura il verbale dell’audizione e, contemporaneamente, anche tutti gli atti relativi all’attività della Commissione d’inchiesta. Le vicissitudini della Commissione continuarono peraltro con nuove dimissioni. Per motivi personali e di salute, il presidente Romano Liberati si dimise dalla carica e da membro della Commissione stessa. Successivamente ritenne opportuno dimettersi anche il funzionario regionale che curava sotto il profilo tecnico il lavoro dell’inchiesta e la verbalizzazione dei lavori. Per diverso tempo, pertanto, la Commissione continuò a riunirsi sotto la presidenza del vice-presidente Turone, lavorando peraltro secondo i programmi prestabiliti. Lo stesso Turone e gli altri membri di minoranza più assidui nel seguire i lavori della Commissione andavano insistendo perché si risolvesse il problema della presidenza. E finalmente la maggioranza decise di affidare la presidenza stessa, in un periodo peraltro in cui i lavori della Commissione stavano per esaurirsi, al consigliere regionale democristiano Giuseppe Lettere, ex assessore.

 

 

 

«GENTE CHE NON HA PIU’ SPERANZE»


Fra i numerosi documenti che la Commissione d’inchiesta è riuscita a procurarsi, merita di essere segnalato lo schema di convenzione intercorso nel dicembre 1977 fra la Regione Abruzzo e la casa di cura privata Villa Pini d’Abruzzo, sita in Chieti. Nell’art. 3 ditale documento si afferma: «Per l’ammissione e la dimissione dei malati si applicano le vigenti disposizioni di legge». E’ appena il caso di osservare che la legge cui si fa riferimento è quella che considera del tutto superata la logica manicomiale e pertanto esclude ogni possibilità di lungodegenza.  Nel successivo art. 4 della medesima convenzione leggiamo: «La casa di cura si impegna affinché la durata della degenza sia mantenuta nello stretto limite indispensabile, tenuto conto, per quanto possibile, degli accertamenti effettuati precedentemente in altra sede, e si impegna altresì a dimettere gli assistiti non appena si trovino in condizioni di proseguire le cure a domicilio o ambulatorialmente». In concreto, mentre le strutture pubbliche dimettono i malati non appena tali condizioni si siano create, di fatto le cliniche private delle province di Chieti e di Pescara hanno una percentuale limitatissima di dimissioni di malati e nella stragrande maggioranza dei casi il degente esce dalla casa di cura soltanto nel momento del decesso.
Questo dato della morte che il più delle volte diventa l’unico fattore di uscita dalla casa di cura, ci consente di aprire il discorso sulla già ricordata audizione di don Giuseppe Di Martino. Questi, rispondendo a una domanda del consigliere commissario Saia, di professione medico, il quale aveva chiesto di sapere qualcosa sulla condizione dei degenti, con riferimento ovviamente alla clinica Villa Pini, ha risposto «Posso riferire fino all’87, perché poi non ci sono stato più. Quello che praticamente, come sacerdote, come uomo, come psicologo, ho notato in questa gente è che c’è questa specie di istituzionalizzazione provocata da tanti anni, cioè gente che non ha più speranze, gente che non ha più incentivi, gente che non ha più stimoli e gente che non si entusiasma a niente.   Praticamente - prosegue don Giuseppe Di Martino - malati che mano a mano si avviano verso la dissoluzione finale perché sanno che per loro l’unico esito in senso di uscita è la morte. La loro, quindi, è una vita di automi: mattina, colazione, salone, mangiare; ormai sono tutti etichettati in questo modo e non è’ che non ci siano delle iniziative scientificamente valide, che possano portare questi malati ad esaltare ancora la loro personalità». Con quest’ultimo accenno, espresso in linguaggio un po’ involuto, come a volte capita anche a persone di buona cultura quando il tono è discorsivo e i tempi della conversazione non consentono di articolare perfettamente concetti complessi, il Di Martino ha voluto con ogni evidenza sottolineare il drammatico divario esistente fra le possibilità che la scienza psichiatrica contemporanea in teoria offrirebbe, per alleviare la dolorosa condizione dei malati psichici, spingendoli a stimolare le loro ancora valide anche se ridotte attitudini mentali, e la grigia prassi quotidiana adottata nelle case di cura in cui la lungodegenza è un dato scontato, così come le sedicenti terapie imperniate sull’uso degli psicofarmaci che ottundono sempre di più le facoltà mentali del malato.
In proposito ecco un altro stralcio dalla relazione di don Giuseppe Di Martino: «L’assistenza ospedaliera fornita dalla casa di cura Villa Pini ai 425 malati psichiatrici ed ai 100 malati neurologici, dal 1° gennaio 1978 fino al marzo 1991 - una vita! -, è consistita esclusivamente nella somministrazione quotidiana di psicofarmaci: non lo dico io, ma lo dicono gli ispettori del Ministero della Sanità.  Costoro affermano che solo nel 1991, dopo oltre 13 anni di rapporti convenzionali, la casa di cura ha attivato alcune iniziative riabilitative o ergoterapiche, per soli 150 malati su 525, nelle quali mancano totalmente, però, tecnici della riabilitazione psichiatrica e piani interdisciplinari di riabilitazione con definizione di obiettivi individuali e relativa verifica periodica dei progressi raggiunti da ogni singolo paziente; quindi, un’ organizzazione di facciata».
Il sacerdote così prosegue rivolto ai membri della Commissione d’inchiesta: « Voi siete andati a vedere la riabilitazione; però, avete domandato dopo quanto tempo di riabilitazione questi malati vengono rimandati a casa?  Mai; è una riabilitazione permanente».



 

SUI RISVOLTI PENALI DECIDANO I GIUDICI


Dall’ampia e particolareggiata testimonianza resa da don Giuseppe Di Martino alla Commissione d’inchiesta abbiamo estrapolato soltanto i due brani citati, perché il primo, quello sulle condizioni di apatia in cui vegetano i degenti di Villa Pini, è stato espresso dal Di Martino “come sacerdote, come uomo, come psicologo”, ed è un legittimo giudizio dichiaratamente soggettivo; il secondo, quello sulla sistematicità dell’uso pressoché esclusivo di terapie fondate sulla somministrazione di psicofarmaci, trova oggettivo e incontestabile riscontro nelle periodiche relazioni redatte sulla psichiatria abruzzese da ispettori governativi ministeriali o regionali.
Della testimonianza di Di Martino abbiamo qui utilizzato una parte così esigua, perché, sotto il profilo penale saranno i giudici a decidere secondo competenza, e sotto il profilo politico-amministrativo l’audizione del sacerdote ha avuto soltanto una valenza di conferma e completamento rispetto a quanto d’irregolare e di scorretto la Commissione aveva già accertato.
L’audizione dell’ex sindacalista della CISL, attualmente parroco di Torrevecchia, è stata però molto ricca d’informazioni estremamente interessanti, relative alla gestione e alla contabilità della clinica. Una delle ragioni - anche se non la sola - per cui la Commissione d’inchiesta ha deciso di far avere alla magistratura tutta la documentazione relativa ai propri lavori, compreso dunque il verbale dell’audizione del Di Martino, nonché le ampie schede illustrative presentate per iscritto dal sacerdote, è che in molte delle informazioni raccolte si configurano ipotesi di reato.
Sui risvolti penali dei comportamenti di chi ha avuto la responsabilità politica e quella imprenditoriale dell’assistenza psichiatrica, non è competente a indagare una Commissione d’inchiesta consiliare, la quale, fra l’altro, neppure avrebbe i mezzi tecnici di cui dispongono invece i magistrati inquirenti per accertare la verità e stabilire eventuali rinvii a giudizio.
Compito della nostra Commissione d’inchiesta era di accertare se nella situazione di crisi drammatica in cui versa la psichiatria in Abruzzo ci fossero responsabilità politiche, e a chi fossero addebitabili. Ora, anche senza utilizzare i capi d’accusa formulati con larga precisione di cifre dal sacerdote Di Martino, e lasciandone doverosamente l’esame alla magistratura dell’Aquila, di Pescara, di Chieti,
la Commissione ha raggiunto - come risulta dalle pagine della presente relazione - elementi largamente bastevoli di certezza per concludere i propri lavori con un giudizio di dura condanna politica a carico delle giunte regionali che, dal 1978 in poi, hanno gestito la materia della psichiatria (oltre a tutto il resto).
Rinunciare in questa sede all’utilizzo dell’ampio materiale fornito lodevolmente alla Commissione d’inchiesta dal Di Martino, lungi dall’essere uno stratagemma elusivo adottato per liberarci di una patata bollente, è un atteggiamento doveroso di rispetto della divisione dei poteri. Il confronto politico è una cosa, l’attività giudiziaria è altra cosa. La Commissione sarebbe criticabile se avesse respinto la richiesta del sacerdote e avesse evitato di ascoltarlo; oppure se, dopo averlo ascoltato, avesse ignorato la gravità delle sue affermazioni e la loro possibile valenza penale. Al contrario, riconoscendo che il risvolto giudiziario dei problemi affrontati non compete a noi, e agevolando il compito della magistratura con la tempestiva trasmissione degli atti alle Procure della Repubblica, ci assumiamo quali consiglieri regionali la responsabilità piena del giudizio di condanna politica qui espresso, e ci assumiamo quali cittadini l’altrettanto doverosa responsabilità di metterci a disposizione della giustizia per agevolare i magistrati cui spetta di accertare e punire i comportamenti di rilevanza penale.

 

 

 

I MODULI IN BIANCO DI PESCARA


D’altronde, ad avallare l’ipotesi d’illeciti penali e di speculazioni miliardarie condotte sulla pelle dei malati di mente - secondo metodologie molto simili a quelle descritte da Giuseppe Di Martino - ci sono già significative vicende giudiziarie aperte dalla magistratura abruzzese per abusi commessi in campo psichiatrico. Si tratta di fatti dei quali la Commissione d’inchiesta non è giunta a conoscenza tramite lo strumento istituzionale delle audizioni, ma di cui è stata informata, come tutta l’opinione pubblica abruzzese, da attendibili notizie di stampa. Ci riferiamo per esempio all’inchiesta pescarese sui ricoveri per il trattamento sanitario obbligatorio, cui possono essere sottoposte persone ritenute affette da turbe mentali.
Riferiamo l’episodio in margine a questa relazione, senza attribuirgli la medesima valenza dei fatti accertati dalla nostra inchiesta consiliare, ma ritenendolo meritevole d’attenzione agli occhi di chi voglia capire meglio i meccanismi attraverso i quali possono passare i canali della speculazione illecita che attingono alle risorse destinate all’assistenza psichiatrica.
Le informazioni che seguono sono desunte in sintesi da “Il Centro” del 12 agosto 1993: e le diamo (è bene ripeterlo) con tutte le riserve che sono doverose davanti a notizie raccolte dai cronisti, secondo le buone regole del giornalismo, in anticipo rispetto ai tempi delle verità ufficiali.
L’inchiesta giudiziaria riguarda l’Ospedale Santo Spirito di Pescara, dove il reparto psichiatria ha dieci posti-letto. Senonché, negli ultimi anni, a Pescara, sono state ricoverate per il trattamento sanitario obbligatorio (Tso) dalle 120 alle 130 persone. Si tratta di ricoveri coatti, previsti dalla legge per i casi in cui il malato di mente si comporti in modo tale da far supporre che possa compiere gesti inconsulti, a proprio danno o a danno di altri.
La materia è ovviamente delicata. Contro il rischio di abusi - per evitare cioè che vengano ricoverati come pazzi furiosi cittadini del tutto sani di mente, magari soltanto alterati a causa di una lite - la legge prevede che tali ricoveri debbano essere caratterizzati da situazioni di eccezionalità, attestate, oltre che dal medico, da amministratori responsabili.  Sia detto fra parentesi: in molti casi, nella prassi, il trattamento sanitario obbligatorio si traduce ancora nell’attuazione di quella metodologia arcaica e discussa che è l’elettroshock.  Non è questa la sede per addentrarci nella polemica scientifica sull’efficacia o la dannosità di tale strumento, che in tutto il mondo la psichiatria più progredita, negli anni sessanta - settanta, aveva bandito come strumento di coercizione incivile, ma che di recente una parte della scienza psichiatrica sta cautamente rivalutando.
Che si applichi o no l’elettroshock, il trattamento sanitario obbligatorio ha sempre i caratteri di una violenza fisica esercitata sull’individuo ritenuto affetto da turbe psichiche. Ciò spiega le cautele imposte dalla legge, la quale infatti prevede che i ricoveri per il Tso vengano volta per volta proposti da un medico ed espressamente autorizzati dal sindaco e dall’assessore alla Sanità, mediante moduli recanti le loro firme.
Ebbene, a Pescara, una perquisizione attuata all’inizio di agosto dalla polizia giudiziaria nel reparto psichiatria del vecchio Ospedale Santo Spirito ha portato al sequestro di sette moduli firmati in bianco dal sindaco e dall’assessore alla Sanità. E’ evidente che se la prassi è questa (e gli amministratori in carica al momento del sequestro hanno dichiarato che tutti i loro predecessori avevano regolarmente rilasciato moduli preventivamente firmati in bianco per i ricoveri di trattamento sanitario obbligatorio) viene a cadere qualsiasi garanzia a salvaguardia del cittadino, e diventa lecita la domanda: quante delle 120 persone coattivamente ricoverate ogni anno a Pescara per il trattamento sanitario obbligatorio erano davvero affette da turbe mentali, e quante sono state invece vittime di coercizione arbitraria?
Anche fatta salva la buona fede del sindaco e dell’assessore in carica nel momento (agosto 1993) in cui la polizia effettuò il sequestro dei moduli prestampati e firmati in bianco, tale prassi, in uso a Pescara da quando esiste il trattamento sanitario obbligatorio, ha un evidente risvolto finanziario - speculativo.
Infatti, dato che il reparto psichiatria dell’Ospedale Santo Spirito ha solo dieci posti-letto, di norma occupati, risulta evidente che i 120 cittadini pescaresi sottoposti ogni anno a ricovero coatto sono stati avviati altrove, e cioè ad una clinica privata convenzionata. Poiché abbiamo visto più sopra a quali livelli giungono le rette giornaliere che la Regione sborsa alle cliniche private per ciascun ricoverato (minimo 175.000 lire), appare chiaro che ogni ricovero, coatto o no, si traduce in un affare. Il trattamento sanitario obbligatorio finirebbe così con l’essere la valvola di sicurezza che permette alla clinica privata di utilizzare sempre a pieno regime la propria disponibilità di posti-letto.


 

I GUASTI DELLA NEUROPSICHIATRIA INFANTILE


Un tema di grande rilevanza, che la Commissione d’inchiesta non ha avuto modo di trattare nei suoi aspetti specifici, ma che merita di essere qui segnalato per la gravità delle lacune che presenta, è quello della neuropsichiatria infantile. In proposito, in data 26 maggio 1993, la ULSS n. 6 dell’Aquila ha inviato all’assessorato regionale alla Sanità una proposta di organizzazione in cui fra l’altro è detto: «Le Unità Operative di Neuropsichiatria Infantile, operando nell’ambito del Dipartimento di Salute Mentale, devono garantire gli interventi specialistici ambulatoriali, domiciliari e consultoriali nel territorio di appartenenza, integrandoli con gli interventi propri di altri servizi socio-sanitari (consultori, medicina scolastica etc.), predisponendo inoltre il ricovero del minore presso strutture idonee solo in caso di effettiva necessità e dopo parere favorevole del genitore o, nei casi previsti dalla legge, dal giudice tutelare».
Uno degli autori della proposta, il dottor Renato Cerbo, specialista di neuropsichiatria infantile, scrive: «Purtroppo la realtà esistente in Abruzzo è di totale carenza di strutture e servizi, anche a causa di una legislazione regionale che non ha colmato le lacune della legge 180/78, contrariamente a quanto avvenuto in quasi tutte le regioni del centro- nord Italia, le quali hanno previsto dei servizi di neuropsichiatria infantile nei loro piani regionali».
In Abruzzo, riferisce sempre il dottor Cerbo, «la legislazione regionale esistente, oltre ad essere carente, ha finito per privilegiare l’assistenza ai minori con handicap presso strutture private convenzionate (L.R. 19.7.84, n. 46), creando confusione fra minorazioni fisico-psichico-sensoriali e disturbo mentale o affettivo-relazionale, per cui a tali strutture è confluita un’utenza, non solo neurologica ma anche psichiatrica, con grave danno per la salute mentale del bambino».
Accade insomma che fanciulli affetti da patologie solo apparentemente simili, ma in realtà molto diverse vivano la fase sedicente terapeutica in una promiscuità che non solo annulla gli eventuali effetti positivi della cura, ma crea le condizioni per l’aggravarsi di entrambe le patologie.
In altre parole, se una rete di ambulatori consultoriali, integrata da servizi domiciliari, è necessaria per alleviare la condizione del malato mentale adulto, tale necessità assume un’urgenza drammatica in rapporto al dovere di sottrarre al torpore delle vecchie logiche manicomiali i piccoli malati in età evolutiva. Anche su questo punto l’ostacolo maggiore alle possibilità di riforma sembrano essere - fino a prova contraria - gli interessi privati che hanno sempre condizionato l’assistenza psichiatrica in Abruzzo.
E’ appena il caso di aggiungere - a smentire le miopi riflessioni corporative di quegli angusti settori sindacali impegnati nella tutela dell’interesse imprenditoriale col pretesto di difendere l’occupazione - che l’auspicata creazione di strutture pubbliche ambulatoriali distribuite sul territorio favorirebbe l’aumento dei livelli occupazionali.


 

 

FAVORITISMI A SPESE DEL MALATO


Al centro del nostro lavoro d’inquirenti - ancorché d’inquirenti con poteri d’indagine limitati - c’è stata sempre la preoccupazione umana di tenere nella massima evidenza, e prima di ogni altro problema economico, amministrativo, organizzativo, la condizione del malato di mente.  Viviamo in una società la cui cultura collettiva negli ultimi decenni ha compiuto qualche progresso nei confronti dell’handicap fisico. Anche su quel versante, beninteso, i passi da compiere sono ancora molti, perché non basta l’abbattimento di alcune barriere architettoniche, e non è sufficiente qualche accorgimento idoneo ad agevolare i percorsi delle sedie a rotelle, per poter dire che i cittadini disabili hanno ottenuto il riconoscimento dei loro diritti. In ogni modo, nei casi in cui il portatore di handicap conserva la pienezza delle proprie facoltà mentali, e ha soltanto problemi di mobilità o di protesi, riesce più facilmente - proprio grazie al vigore psichico che conserva intatto - a raccogliere attorno a sé quelle solidarietà che permettono alla cultura sociale di progredire sulla via di un rapporto più civile con l’handicap.
La situazione è assai più drammatica per l’handicap mentale. In questi casi il cittadino disabile, il più delle volte, cammina e si muove come la gente sana, ma la sua anomalia psichica lo isola, o, meglio, fornisce a noi “normali” l’alibi morale, magari inconscio, per isolare il malato mentale, considerato un cittadino diverso col quale non potremmo metterci in sintonia neppure impegnandoci con la massima buona volontà.
Questo non è vero. La nostra Commissione d’inchiesta ha ascoltato anche il genitore di un giovane malato mentale, che oggi ha ventisette anni e che ne aveva quattordici quando un incidente di motorino gli procurò ferite gravissime, dalle quali, dopo un mese di coma, è guarito il suo corpo, ma non compiutamente il suo cervello. Attraverso la testimonianza di quel genitore, abbiamo percepito la totalità dell’impegno affettivo e intellettivo con cui, nella maggioranza dei casi, i parenti dei malati mentali si prodigano per evitare che il parente si adagi nella passività dell’emarginazione provocata dagli psicofarmaci. Se il malato mentale vive in famiglia, ciò da una parte crea problemi gravissimi per gli altri membri del nucleo, ma dall’altra l’ambiente affettivo crea le condizioni perché le residue risorse psichiche del malato vengano stimolate al massimo. Ciò non condurrà il malato alla guarigione (se non in rarissimi casi pressoché miracolosi), ma gli impedirà di perdere i margini di lucidità che conserva e lo salverà dal declino della crescente inerzia.
La funzione della famiglia, dunque, a detta di tutti gli esperti, può essere importantissima. Tuttavia, perché la famiglia del malato mentale sia posta in grado di reggere il peso di una situazione drammaticamente disagevole, occorre che abbia il supporto, anche solo parziale, dell’assistenza pubblica. Se tale supporto - in alternativa al ricovero più o meno coatto - consiste in quella modestissima somma che la Regione Abruzzo passa al malato mentale residente presso la famiglia, quei soldi, che il più delle volte finiscono in sigarette fumate nell’ottundimento della solitudine, sono buttati via. Se viceversa la Regione provvedesse finalmente a creare sul territorio strutture d’assistenza psichiatrica, alle quali le famiglie possano rivolgersi per avere consigli, e dove gli stessi malati possano trovare centri di rapporto umano, o magari occasioni per un’attività manuale organizzata da assistenti sensibili al problema, l’Abruzzo si avvicinerebbe al livello di quelle regioni dove l’assistenza psichiatrica -  pur lungi dall’aver raggiunto condizioni ottimali -  è quanto meno oggetto d’impegno politico-amministrativo razionale.
In Abruzzo viceversa il sistema di potere che ha finora controllato Regione ed enti locali ha condotto in campo psichiatrico una politica imperniata su irrazionalità e favoritismo nei confronti d’interessi privati. Creare agili strutture psichiatriche distribuite sul territorio  in modo che al malato sia consentito di trovare l’aiuto di esperti senza troppo allontanarsi dal luogo in cui risiede con la famiglia -  è certamente una soluzione costosa. Ma se dal 1978, cioè da dopo la riforma Basaglia, fossero stati destinati alla creazione di tali strutture quei fondi pubblici che invece la cecità o l’avidità di amministratori mediocri hanno incanalato verso i prosperi bilanci dell’imprenditoria privata, oggi la psichiatria abruzzese vanterebbe un’organizzazione idonea ad aiutare davvero i malati mentali e le loro sfortunate famiglie.
Si sono buttati via quindici anni e almeno mille miliardi, ma la possibilità di cambiare strada c’è ancora. Non si tratta affatto di smantellare o comunque danneggiare le cliniche private oggi esistenti (come vorrebbero far credere taluni sindacalisti d’azienda in sospetta sintonia con quelli che ritengono gli interessi del padrone), ma si tratta semmai di consentire che la psichiatria privata continui a prosperare senza togliere ogni possibile spazio -- come finora è accaduto in alcune province abruzzesi - allo sviluppo di una psichiatria pubblica efficiente. In alternativa al calore della famiglia naturale, il malato di mente - come testimoniano gli esperti del settore - può trovare fattori di vitalità anche in quelle comunità terapeutiche che vengono definite “case-famiglia”.  Ne abbiamo parlato a proposito della positiva esperienza condotta nel Molise, e anche - restando nei confini della nostra regione - a proposito dei buoni risultati ottenuti dall’ospedale psichiatrico pubblico di Collemaggio, a L’Aquila. Beninteso, anche a Collemaggio ci sono stati problemi, difficoltà, incidenti, ed è possibile che ce ne siano ancora; ma il criterio delle case-famiglia, talora collocate fuori dai confini dell’ospedale ed inserite nella realtà cittadina, continua a risultare benefico per la condizione del paziente, e dimostra come il buon funzionamento della sanità pubblica non sia necessariamente e sempre un’utopia destinata al fallimento.

 

 

I  N  D  I  C  E

 


P R E M E S S A

PERCHE’ QUESTO FASCICOLO 1

 


L’ AFFARE  PSICHIATRIA


IN QUINDICI ANNI ALMENO MILLE MILIARDI                                 4


L’ESEMPIO DEL MOLISE                                                                10


LE DENUNCE MINISTERIALI IGNORATE                                          13


GLI ARRICHJMENTI:  COLPA DELLA LEGGE?                                 16


«GENTE STRACCIA TA, LACERA CI FERMAVA» 20


IL CLAMOROSO CASO DI CHIETI                                                24


UN COMPORTAMENTO SINDACALE SOSPETTO                            27


«GENTE CHE NON HA PIU’ SPERANZE»                                       34


SUI RISVOLTI PENALI DECIDANO I GIUDICI                               37


I MODULI IN BIANCO DI PESCARA                                             40


I GUASTI DELLA NEUROPSICHIA TRIA INFANTILE                      43