Quella che sembra una crisi «politica» del nostro tempo in realtà ha i caratteri di una mutazione dei meccanismi stessi del pensiero
Mi sembra diventato improvvisamente evidente, anche se la crisi stava maturando da anni, che il mondo è in uno stato di guerra generalizzata (l’unico a dirlo apertis verbis è stato il vescovo di Roma, papa Francesco, sempre più solo, anche e soprattutto in quel Vaticano dove giustamente non ama stare). E che quasi tutti i mass media anziché aiutare a capire fomentano, come succede nei tempi di guerra, i peggiori istinti identitari. E che il ceto politico tutto, a partire da quello degli Stati uniti, ha perduto la bussola.
Da noi, in più, la crisi di sistema è irreversibile: tre governi non eletti democraticamente; un Presidente della Repubblica anziano e assolutamente inadeguato, per non dir di peggio; un parlamento delegittimato dalla Corte costituzionale; un presidente del consiglio che è una macchietta vernacolare, ma si pone lungo la linea Craxi – Gelli – Berlusconi, e quindi, nella sua inefficienza, pericoloso; i partiti, tutti, paralizzati o agonizzanti. E soprattutto un paese demoralizzato e incapace di reagire: ognuno cerca di salvare il suo particulare.
Difficile quindi uscirne con nuove idee politiche, innovative o restaurative dell’ordine democratico nato dopo la Seconda guerra mondiale. Quell’ordine è morto, possiamo rimpiangerlo ma non ricostruirlo. Ma credo valga la pena tentar di prendere il discorso da un altro lato.
La globalizzazione elettronica ha prodotto una rivoluzione antropologica che sta annullando l’idea tradizionale di “personalità”. Questa noi la costruiamo lentamente, legando tra loro, nella memoria, le esperienze della nostra vita, imparando a connettere cause ed effetti, quindi concentrandoci in quel discorso che avviene dentro di noi quando pensiamo («quel discorso che l’anima svolge tra sé e sé riguardo a ciò che prende in esame», dice Socrate nel Teeteto): è «quel dialogo silenzioso, quel rapporto intimo e costante che tutti intrattengono con sé stessi» (Hannah Arendt). Il pensiero ha bisogno di memoria: ancora Arendt: «i peggiori malfattori sono coloro che non ricordano, semplicemente perché non hanno mai pensato e – senza ricordi – niente e nessuno può trattenerli dal fare ciò che fanno. Per gli esseri umani, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade». Ma bene che vada l’elettronica globalizzata favorisce l’archivio, non la memoria, il dato puro, non la sua contestualizzazione e il suo radicamento dentro di noi. C’è grande differenza fra l’informazione e il senso, tra lo stimolo-risposta e la lenta ruminazione del dialogo interiore.
E se la memoria del passato non conta più, si chiude anche la sensibilità per il futuro: come potrebbe aprirsi una qualunque progettualità su un mondo che gira vorticosamente su se stesso in un eterno, effimero presente? Scivoliamo in velocità sulla superficie dei vari segmenti del reale come sul ghiaccio di un Palasport. Fare esperienza, allora, è, per gli apologeti della “navigazione”, inanellare segmenti diversi di mondo in un’unica traiettoria, un movimento che attraversa velocemente una sequenza di punti. E la velocità serve a tenere insieme la concatenazione dei gesti; la spettacolarità, cioè il prevalere della seduzione sulla sostanza, della confezione sul prodotto, fornisce l’energia per l’accelerazione. La profondità, che per definizione è lenta, è aborrita.
Allora forse quella che sembra la “crisi politica” del nostro tempo potrebbe essere piuttosto una crisi cognitiva. Un’incapacità a connettere gli elementi della realtà, a distinguere tra realtà e finzione. Soprattutto ad assumersi responsabilità individuali. Credo che solo reimpadronendoci del coraggio di essere noi stessi potremo porre le basi di una nuova politica, o almeno di una resistenza alla mistificazione in cui stiamo affogando come in una palude.
Concludo con tre citazioni. Una ancora di Socrate (Gorgia, 48, 2b-c): «Sarebbe assai meglio che fosse scordata e stonata la mia lira, e che stonato fosse il coro da me istruito e che la maggior parte degli uomini non fosse d’accordo con me e che dicesse il contrario di ciò che dico io, piuttosto che essere io, che pure sono uno solo, in disaccordo e in contraddizione con me stesso».
E le altre due tratte da un romanzo letterariamente “datato”, ma di grande spessore e ancora attuale, anche se si svolge nella Berlino sotto le bombe durante l’agonia del nazismo: Ognuno muore solo, di Hans Fallada (cito dall’edizione Einaudi, ora Sellerio). Pp. 430–431: «Poco importa se uno combatte da solo o se combattono in centomila; se uno s’accorge di dover combattere, combatte, e poco importa che abbia o no compagni di lotta. Io dovevo combattere e tornerei a farlo». E p. 546: «E nella certezza che non gli poteva ormai più succedere nulla – che qui, forse per la prima volta nella sua vita, – poteva esser se stesso, completamente se stesso, in questa certezza egli trovava pace, serenità, riposo».
Gianandrea Piccioli, Il Manifesto, 8-X-2014
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