Basta silenzi sulle torture

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Basta silenzi sulle torture

Pietro Verri, ricordando in Osservazioni sulla tortura il processo agli untori di Milano del 1630 e la condanna a mor­te di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mo­ra, che avevano confessato sotto tortura, aveva scritto: «col nome di tortura non intendo una pena data a un reo per sentenza, ma bensì la pretesa ricerca della verità co’ tormenti». Ed aveva aggiunto che «quand’anche la tortura fosse un mezzo per iscoprire la verità dei delitti, sarebbe un mezzo intrinsecamente ingiusto».

18 ottobre 2007: Michael Mukasey, appena designato da Bush nuovo Attorney General, sentito dalla Commissione Giustizia del Senato Usa, alla domanda se considerasse il waterboarding una forma di tortu­ra, evasivamente affermò che «se il waterboarding equivale a una tortura, allora esso non è costituzionale» e il presidente Bush disse a sua volta che «i cittadini americani devono sapere che qualsiasi tecnica noi usiamo essa è dentro la legge». Una vasca capace di contenere un uomo, un piano tra­sversale di appoggio per la sua testa e una specie di gigantesco in­naffiatoio – strumenti base di quella “tecnica” - sono ancora visibili a Phnom Penh, nel Museo del Geno­cidio dei Khmer rossi.  Ma ora l’epoca delle teorizzazioni di Bush (e non solo sue) sembra finita per sempre: il Senato degli Stati Uniti, con un rapporto di circa 500 pagine, ha ufficialmente reso pubbliche e condannato le torture di ogni tipo (water‑boarding incluso) e la prassi delle  extraordinary renditions, attuate dalla CIA per oltre un decennio nel quadro di una distorta visione della lotta al terrorismo. Una visione che privilegia la ricerca ad ogni costo dell’informazione ritenuta utile, anche se tale essa non è, con conseguenti e violenti strappi alle regole su cui si fonda ogni democrazia. Così abbandonata la ipocrita definizione di tecnica di interrogatorio, la tortura riprende finalmente il suo vero nome con bocciatura anche di quanti, persino accademici, ne hanno teorizzato l’ammissibilità sia pure solo in casi estremi previsti per legge.

E’ stato affermato che il “rapporto Feinstein”, in fondo, svela fatti e pratiche illegali già note in tutto il mondo. Ciò è sicuramente vero, pur se non erano noti tutti i particolari di quei fatti, ma non si può solo per questo tacere sulla storica importanza delle centinaia di pagine del rapporto che, ancora una volta, testimoniano la ammirevole capacità di dolorosa e tragica autocritica che la democrazia americana ha sempre dimostrato di possedere.

Ma c’è altro nel rapporto Feinstein: non solo la condanna di quei metodi, ma anche il fermo riconoscimento della loro assoluta inutilità rispetto ai fini dichiarati. Costituiscono, semmai, intralcio alle indagini e fattore di moltiplica­zione delle ragioni di proselitismo di nuovi terroristi.

Lo hanno affermato più volte gli investigatori europei di fronte a quanti continuano ostinatamente a ripetere che con quei metodi la CIA ha ottenuto importanti informazioni, operato molti arresti ed evitato attentati. Quanti, quali, quando? Nessuna risposta precisa è stata mai fornita a tali domande. Semmai solo risposte false (come quella sulla localizzazione di Osama Bin Laden che il Senato Usa smentisce sia avvenuto grazie a quelle tecniche) che servono forse sul piano mediatico, ma non ingannano gli addetti ai lavori e le persone di buon senso. Chi è sotto tortura, infatti, è portato a dire ciò che il torturatore si aspetta e non la verità, anche se, naturalmente, la possibilità di ot­tenerla non potrebbe mai giustificare alcuna forma di illegalità.

Ed alle stesse conclusioni, del resto, conduce l’analisi delle ragioni addotte per giustificare intercettazioni e raccolte di dati a strascico: “sono servite ad evitare attentati”, si dice. Quanti, quali, quando? Anche in questo caso nessuna risposta.

Sempre a proposito del rapporto Feinstein, si potrebbe semmai osservare che mancano i dati e le notizie sugli atteggiamenti tenuti dai Governi dei Paesi alleati degli USA nei casi accertati di renditions e torture commesse all’estero. E’ auspicabile allora che siano proprio i governi europei ad accodarsi presto alle scelte americane. Ne guadagnerebbe la ricerca della verità giuridica e storica che – in relazione a quel tipo di crimini – è stata spesso oggettivamente ostacolata, come di fatto è avvenuto in Italia, con il segreto di Stato apposto sul caso Abu Omar da ben quattro governi in successione, cioè quelli rispettivamente presieduti da Prodi, Berlusconi, Monti e Letta.

Armando Spataro, La Repubblica, 11-XII-2014