Paradossi e rischi

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Paradossi e rischi

Uno degli argomenti decisivi dei fautori della riforma della responsabilità civile dei magistrati è che le condanne pronunciate dall’88 ad oggi sono troppo poche.

Su oltre 400 ricorsi per risarcimento, proposti da cittadini, solamente 7 si sono conclusi con un provvedimento che ha riconosciuto il risarcimento per dolo o colpa grave da parte delle toghe. Scandaloso, si dice, dando per scontato che i numeri della «giustizia ingiusta» siano a più zeri.

Quindi, la legge Vassalli non ha funzionato e va cambiata - anche al di là di quanto ci chiede l’Europa - per garantire che «chi sbaglia, paga». Il ragionamento fila ma tradisce un paradosso: che la “normalità” di un Paese democratico debba essere quella in cui migliaia o centinaia di giudici e Pm sbagliano, commettendo errori gravi o gravissimi, intenzionalmente o colposamente o con negligenza non scusabile. Strana normalità. C’è infatti da chiedersi se i cittadini si sentano davvero più rassicurati da una giustizia che sbaglia cento, mille volte, anche se poi «paga». Cifre a più zeri dimostrerebbero certo che abbiamo un’ottima legge sulla responsabilità civile ma anche, e soprattutto, che un’istituzione fondamentale per il buon funzionamento dello Stato è inaffidabile, addirittura pericolosa per la tenuta democratica. Uno scenario devastante, insomma. È dunque quanto meno auspicabile che l’efficacia della riforma che il Parlamento sta approvando non sia misurata, in futuro, solo in base al numero delle condanne (peraltro, chi stabilisce quando un numero è fisiologico e quando, invece, è patologico?). E che le condanne continuino ad essere poche.

Purtroppo, al di là di alcune modifiche, tra cui quelle richieste dalla Ue, la riforma riflette un sentimento di diffidenza verso la magistratura, di cui è peraltro impregnata la politica giudiziaria degli ultimi trent’anni: norme sempre più dirette a restringere l’ambito della valutazione discrezionale del magistrato (salvo scaricargli la supplenza di casi troppo impopolari per essere risolti dalla politica), o dal sapore più o meno punitivo. Da questo punto di vista, la riforma può avere un valore simbolico che va oltre la sua reale portata, perché porta con sé un messaggio di sfiducia. Con un duplice rischio: allontanare ancora di più i cittadini dalla giustizia; trasformare i giudici in burocrati, ricacciandoli in un tempo lontano in cui dovevano essere solo «bocca della legge», macchine sillogizzanti. Giudici «senz’anima», li definiva nelle sue «Opere giuridiche» Piero Calamandrei, secondo cui ridurre la funzione giurisdizionale al sillogismo giudiziale «significa impoverirla, inaridirla, disseccarla» mentre la giustizia «è creazione che sgorga da una coscienza viva, sensibile, vigilante, umana».

«Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è l’assuefazione, l’indifferenza burocratica, l’irresponsabilità anonima» ha ricordato ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, citando proprio quelle pagine di Calamandrei, dove si legge che il sillogismo giudiziale «sembra fatto apposta per togliere al giudice il senso della sua terribile responsabilità e per aiutarlo a dormire senza incubi». «C’è sulla piazza un impiccato - spiegava Calamandrei - condannato a morte dal giudice. La sentenza è stata eseguita; ma la sentenza era ingiusta: l’impiccato era innocente. Chi è responsabile di aver assassinato quell’innocente? Il legislatore, che nella sua legge ha stabilito in astratto la pena di morte o il giudice, che l’ha applicata in concreto? Ma il legislatore e il giudice, l’uno e l’altro, trovano il mezzo per salvarsi l’anima col pretesto del sillogismo. Così si rimandano la responsabilità e possono dormire, l’uno e l’altro, sonni tranquilli, mentre l’innocente dondola dalla forca». Ecco, «non può essere questa la giustizia di una democrazia né questo può essere il giudice degno della Città degli uomini liberi».

Ma è quanto rischia di accadere se i magistrati, come reazione difensiva alle potenzialità intimidatorie della riforma, si trasformeranno in burocrati. Chi sbaglia paga, neanche a dirlo. Ma a volte uno slogan può avere una carica simbolica micidiale. Che è responsabilità di tutti eliminare, fin dall’approvazione della riforma, per avere sempre giudici che - prendendo a prestito le parole di Calamandrei - «continuino a portare con vigile impegno umano il grande peso di questa immane responsabilità che è il rendere giustizia».

Donatella Stasio, Il Sole24ore, 25-II- 2015