La sinistra da rottamare e quella da reinventare

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La sinistra da rottamare e quella da reinventare

Esiste, in potenza, un ampio spazio a sinistra per la nascita di un nuovo soggetto politico. La posizione, in atto, del disegno di un’altra formazione politica urta però contro difficoltà di vario genere.

Soprattutto l’incertezza culturale riguardo ai tratti della creatura nascente è lo scoglio da rimuovere.

Non si occupa uno spazio disponibile solo perché si approfitta di un vuoto di rappresentanza con scaltrezza tattica e scorciatoie organizzative.

Occorre uno sforzo di pensiero per affinare una proposta credibile entro una congiuntura storica.

Un pensiero politico rivolto all’agire comprende tre dimensioni: ideologica, culturale e organizzativa. L’ideologia è ciò che consente a un gruppo di collocarsi in autonomia nelle contraddizioni sprigionate dalle tendenze dell’epoca attuale. L’ideologia è cioè quel catalogo di credenze che fornisce un’efficace dose di semplificazione nella lettura dei conflitti. E’ un condensato di schemi interpretativi, di suggerimenti ermeneutici per la rapida decodifica dei processi attraverso la lente di un punto di vista parziale. Nell’indeterminatezza identitaria del Pd, un riferimento alla nostalgia (radici, simboli, memorie, immaginario) ha un sicuro impatto in una fascia rilevante di opinione, che si sente spaesata e offesa. Oltre alla tradizione, l’ideologia, per incidere nell’agire collettivo, ha però bisogno di uno spirito di combattimento che si eserciti nella critica radicale del tardo capitalismo (esclusione generazionale, vulnerabilità sociale e diseguaglianze di status).

Il nuovo soggetto deve fornire elementi per una reinvenzione dell’identità della sinistra dopo la resa della socialdemocrazia europea alle spinte espropriative di diritti, e alle ondate di precarizzazione del lavoro proprie del capitalismo postmoderno. Una sinistra genericamente antagonista e radicale, ideata in un qualche laboratorio, non può in alcun modo schivare l’obiezione preliminare di Engels. Nelle democrazie esistono tecniche elettorali e congegni istituzionali bipolari che, egli scriveva, tracciano un «party government, che fa sembrare perduto ogni voto che ricada su un candidato che non sia stato presentato da uno dei due partiti di governo. E l’americano, così come l’inglese, vuole influire sul suo Stato e non butta via il suo voto». Per questo, ad una sinistra critica e identitaria, spetta un grande lavoro per non apparire irrilevante nella democrazia dell’alternanza e per non essere percepita come un intralcio nelle forme della contesa bipolare imposta dall’Italicum. Dall’ideologia e dalle corde della memoria, deve scendere al piano riservato alle mosse ispirate all’efficacia politica.

Occorre un investimento in cultura politica che mostri che quello dato a un nuovo soggetto non è un voto inutile ma un antidoto allo scivolamento verso un insidioso regime plebiscitario. Una battaglia di cultura politica contro il leaderismo e la narrazione del populismo di governo, pone la nuova sinistra in una funzione cruciale per il recupero della democrazia costituzionale. Alla difesa di un modello di democrazia calpestato, la sinistra deve aggiungere un disegno realistico per riannodare questioni vitali che mobilitano movimenti di protesta, per ospitare sensibilità solidaristiche laiche e religiose, per dare ascolto alle richieste di soggettività e alle rivendicazioni di libertà. La scommessa è una sinistra che, oltre al presidio della rappresentanza e della costituzione, si radichi nel sociale e nei conflitti del presente.

Può farlo con un’interlocuzione ricca e con un raccordo tracciabile con il sindacato, con l’associazionismo diffuso.

La mancanza di una sinistra con un’esplicita connotazione ideologica e con un tocco di classe è all’origine della decadenza etica del ceto politico e la ragione originaria dei fenomeni di antipolitica. Notabili senza scrupoli, ras avidi di potenza, leader gasatissimi dall’ingegnere del capitale, sono il risultato di una politica praticata come pura arena elettorale, come amministrazione senza pensiero, come competizione senza identità. Un continuum inestricabile oggi lega, ad ogni livello istituzionale, politica e affari. Un connubio tra denaro e potere si riscontra in occidente, ed è ben scolpito nelle consuete pratiche di governo negoziato tra le burocrazie e le agenzie private. Dopo la scomparsa dell’autonomia politica del lavoro, l’organicità dei governi agli interessi del capitale è strutturale, senza rimedio nel gioco competitivo attuale.

L’identità di una moderna sinistra di classe, di popolo e di cittadinanza (che aggreghi interessi subalterni, pratiche di democrazia, istanze di libertà individuale) è la prima risposta alla questione morale che nella sua virulenza è riconducibile geneticamente alla perdita di autonomia della politica rispetto all’agenda redatta dalle potenze del capitale. Il Pd è l’emblema del partito estroverso e scalabile, perché privo di autonomia, identità, radicamento sociale. La sua ossessione per il capo (nella scuola, nell’azienda, nel governo) è organica alla fisionomia di un partito del denaro, dell’impresa, dei media che accompagna al potere le idee (la scuola pubblica è uno “stipendificio”) e gli interessi (la precarietà e svalorizzazione per via giuridica del lavoro) della destra economica.

Un partito nuovo a sinistra non può che nascere da uno spirito di inimicizia verso lo scambio regressivo proposto dal governo della narrazione tra modiche riduzioni delle tasse sulla casa e cospicuo abbattimento delle politiche pubbliche e dei diritti sociali, con le cosiddette riforme strutturali che depotenziano ogni dignità del lavoro, deprimono la sua stessa forza contrattuale. Se la rivolta contro il mito dell’uomo solo al comando, che strapazza le rappresentanze sociali e politiche, è la cultura politica e istituzionale di riferimento, la conseguenza organizzativa che ne deriva è piuttosto trasparente.

La sinistra deve archiviare la suggestione per la personalizzazione della leadership a lungo accarezzata nelle micro formazioni esistenti. Un partito che voglia ricostruire la mediazione smarrita tra Stato e società non può vivere nell’ossessione della leadership, che non è il punto di partenza, ma lo sbocco naturale di un progetto di cultura politica condiviso.

Nel grado elevato di corruzione della politica, incentivato dalla tragedia civica del presidenzialismo municipale e regionale, solo da un centro, da un gruppo dirigente coeso ma plurale, può scaturire un impulso per il rinnovamento dell’agire politico. Il nodo, nella parabola di un movimento politico allo stato nascente, non è quello di predefinire chi sarà il capo ma, lo aveva compreso Gramsci, di avere la consapevolezza che «l’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d’accordo tra loro, con fini comuni non tarda a formare un esercito anche dove non esiste».

Michele Prospero, Il Manifesto, 21-VII-2015