90° anniversario del processo Matteotti

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90° anniversario del processo Matteotti

La Cassazione, con sentenza del 21 dicembre 1925, rimise dalla Corte d’Assise di Roma a quella di Chieti, per gravi motivi di sicurezza pubblica, il processo a carico di Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo e Augusto Malacria, che dovevano rispondere di correità in omicidio aggravato in persona del deputato socialista Giacomo Matteotti. Nel corso dell’istruttoria romana, condotta dall’intransigente magistrato Mauro Del Gudice, erano emerse pesanti responsabilità a carico di alcuni dirigenti del PNF e dello stesso Mussolini, denunciate all’opinione pubblica dalla stampa di opposizione.

Per chiudere l’affare Matteotti, fu promulgata la “legge fascistissima” 31 dicembre 1925, n. 2307, che sopprimeva la libertà di stampa. Sul processo, il duce e Roberto Farinacci, segretario nazionale del PNF, furono d’accordo sull’esigenza di dirottarlo in una tranquilla città di provincia, di pilotare il dibattimento e provocare un verdetto favorevole al regime, per dimostrare all’opinione pubblica nazionale e internazionale che era estraneo al delitto e conservava intatto il consenso della nazione. Ma sulla sua gestione avevano idee molto differenti: Mussolini voleva che non assumesse colore politico e terminasse rapidamente con una condanna moderata per i cinque imputati; Farinacci, ottenuto il mandato di difensore di Dumini, era fermamente deciso a trasformarlo in un processo politico alle opposizioni e a ottenere per gli imputati l’assoluzione piena. Il capoluogo teatino e L’Aquila posero la propria candidatura per ospitare il processo. I due massimi dirigenti del fascismo scelsero Chieti, per placarne il malcontento per alcuni danni subiti negli ultimi tempi. La scelta favorì i piani di Farinacci, perché la città, governata col pugno di ferro dal federale Camillo Bottari, a lui fedelissimo, avrebbe potuto garantirgli una certa libertà di manovra.

I cinque imputati giungono a Chieti il 22 febbraio 1926 e sono immediatamente rinchiusi nel vecchio carcere di S. Francesco. Sono salutati da “Il Nuovo Abruzzo”, organo della federazione chietina, come “campioni di un fascismo rivoluzionario, acceso, selvaggio, audace e guerresco”. Il giornalista fascista Alberto Mario Perbellini, prono alle direttive del governo, nell’articolo Chiara e serena luminosità chietina, pubblicato il 13 marzo sul quotidiano “Il Resto del Carlino” di Bologna, gratifica Chieti dell’epiteto infamante di “città camomilla” per l’indole pacifica della sua popolazione, disciplinata e devota al fascismo. Prono alle direttive del governo, egli copre, sotto il velo propagandistico, la realtà di una città “pacificata” dai fascisti con l’uso dei consueti strumenti repressivi – olio di ricino, violenze squadriste, tessera del pane… - e turbata alla vigilia del processo dall’agitazione dei ceti popolari e impiegatizi, per la disoccupazione e soprattutto la carenza di abitazioni. Numerose famiglie erano state sfrattate dai fabbricati ubicati al Largo Vezio, demoliti in attesa della costruzione del Palazzo delle Poste. La parziale demolizione, per allargare il Corso Marrucino, dei Palazzi De Felice, Olivieri e Croce, adiacenti al Banco di Napoli, avevano costretto gli inquilini delle numerose catapecchie contigue alla disperata ricerca di nuove case in affitto.

La città è messa in stato d’assedio: agenti ordinari, reali carabinieri, soldati di truppa, militi della milizia assicurano la vigilanza notturna e diurna del Palazzo di Giustizia, delle carceri giudiziarie, della stazione ferroviaria; il controllo delle vie di accesso al capoluogo; la traduzione degli imputati dalle carceri al Palazzo di Giustizia e viceversa. Il questore Giuseppe Grazzini dispone il piantonamento delle abitazioni degli antifascisti. Per ingannare l’attesa, le famiglie aristocratiche e borghesi assistono ad allegri spettacoli al Teatro Marrucino.

Farinacci giunge in città il 15 marzo, accolto dai poderosi dannunziani eja,eja, eja, alalà dei camerati, che gli esprimono devozione illimitata. Il processo farsa dura dal 16 al 24 marzo. Al dibattimento non è presente la signora Titta Velia vedova Matteotti: in una lettera ha comunicato al presidente della Corte di avere revocato la costituzione di parte civile quando si è resa conto che, “per le varie vicende giudiziarie e per la recente amnistia, il processo – il vero processo – a mano a mano svaniva” e che, dopo la rimessione del giudizio alla Corte d’Assise di Chieti, non ne rimaneva che “l’ombra vana”. Ha affidato il compito di difendere gli interessi della famiglia all’avvocato Pasquale Galliano Magno, che, come suo marito, ha denunciato le violenze e i brogli elettorali  dei fascisti in provincia, difendendo strenuamente le fondamentali libertà democratiche.

L’arringa difensiva di Farinacci, che indossa la toga d’onore ricevuta in dono dalle nobildonne del fascio femminile, si protrae per circa due ore. Egli trasforma il processo agli assassini in un vergognoso processo politico al deputato assassinato, coprendolo di insulti: sul problema della guerra, fu neutralista e disfattista; nel 1919, nella sua Rovigo, guidò la rivolta popolare contro il caroviveri; sul giornale “La Lotta”, da lui fondato e diretto, svolse propaganda rivoluzionaria e si assicurò l’elezione a deputato con le minacce e le violenze; benché predicasse la giustizia sociale, teneva in schiavitù e obbligava al lavoro bestiale i suoi contadini. Chiede l’assoluzione per tutti gli imputati, ma la Corte accoglie solo in parte tale richiesta: assolve Malacria e Viola per non aver commesso il fatto, ma, ottemperando alla volontà del duce, riconosce Dumini, Volpi e Poveromo colpevoli di complicità corrispettiva in omicidio preterintenzionale e li condanna a soli 5 anni (di cui 4 condonati in virtù del decreto di amnistia), 11 mesi e 20 giorni e all’interdizione perpetua dai pubblici uffci.

Filippo Paziente