Quei notabili locali tra soldi e potere

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Quei notabili locali tra soldi e potere

La crisi sistemica di molti istituti di credito non è solo un fatto economico, ma pure un capitolo di storia sociale del Paese: una radiografia spietata che svela il lato oscuro delle classi dirigenti sul territorio, il sogno di dominio delle oligarchie più periferiche

La crisi del nostro sistema bancario non è solo un fatto economico, è anche un capitolo di storia sociale del Paese. Parlo in riferimento ai tanti istituti medi e piccoli — ma pure a una banca come il Monte dei Paschi, ad esempio — la cui crisi costituisce una radiografia spietata del potere locale italiano. Essa ci racconta infatti nel modo più crudo che cosa sono e come si comportano le oligarchie che dominano nella periferia italiana e che attraverso i loro esponenti troviamo ogni volta alla testa degli istituti in bancarotta. Svelandoci che cosa realmente è l’Italia dei tanto esaltati «territori». Carige, Banca Etruria, Banca Marche, Popolare di Vicenza, Veneto Banca, CariFerrara, CariChieti, Monte Paschi: c’è dentro mezza Penisola: anzi tutta quanta se si considera la lunga lista di banche minori (quasi tutte di credito cooperativo) che la Banca d’Italia ha commissariato nei mesi scorsi e che vede una massiccia presenza di banche del Mezzogiorno. Causa e modalità dello sconquasso sono più o meno sempre le medesime. La storia è sempre la medesima.

È una storia di gruppi di comando locali installatisi alla testa degli istituti, i quali in sostanza si perpetuano cooptando via via i propri membri. Sono in genere formati da qualche imprenditore non sempre brillantissimo, da qualche nome più o meno «illustre» tratto perlopiù dal ceto possidente tradizionale, da un pugno di professionisti affermati con vasti giri di contatti e di «agganci», da una vecchia gloria superammanicata o da qualche astro in ascesa della politica locale.

Troviamo sempre infine due o tre alti dirigenti di banca perlopiù di oscura origine ma capaci — capaci per intenderci, allo stesso modo che può dirsi capace di un meccanico che trucca le automobili — : uomini, questi ultimi (donne non se ne trovano mai), dall’ambizione accesa, che sanno come muoversi nelle pieghe dei bilanci e perciò rendersi necessari, che capiscono al volo di chi bisogna essere amico e a chi conviene concedere un fido a occhi chiusi. Tutti quanti naturalmente, si può immaginare, «conoscono» qualcuno a Roma, frequentano nella loro città i luoghi, le cerimonie e le occasioni che contano, sanno destreggiarsi bene tra Regione e Palazzo di Giustizia, sono in ottimi rapporti con il Comune, con la Camera di Commercio e l’Unione industriale. Non sono l’élite d’altra parte?

È di questi campioni del notabilato di tante città e province italiane che sono stati formati i consigli di amministrazione, i comitati di presidenza, i collegi dei Sindaci, che hanno portato alla rovina un bel gruppo di istituti bancari e depredato decine di migliaia di loro più o meno incolpevoli concittadini. Perché lo hanno fatto? È molto semplice: per arricchirsi, per arricchirsi sempre di più. E insieme per accrescere la propria influenza, per avere più cariche, più relazioni importanti, per diventare più potenti e così magari ancora più ricchi. Soprattutto più ricchi. Posso dirlo senza perciò apparire un cupo moralista? Se c’è una cosa che colpisce da quanto sta emergendo dalle inchieste giudiziarie in corso è la dimensione appropriativa senza l’ombra di uno scrupolo, l’indifferenza a qualsiasi straccio di etica della responsabilità, che sembrano congeniali al notabilato di cui sopra. Questa voglia mai sazia di soldi e di potere, di mettere le mani su una villa o su un affare, l’incapacità di fermarsi.

Così come colpisce l’ovvia convinzione dell’impunità sostanziale, di farla franca in qualunque caso, che con ogni evidenza permeava i sullodati signori del credito. Una convinzione fondata su un dato di fatto — che in Italia i potenti in galera seppure ci vanno ci restano sì e no qualche settimana — ma soprattutto sull’intreccio delle relazioni sociali: quello stesso intreccio che così di frequente ha determinato l’erogazione dei crediti facili presto rivelatisi inesigibili ma sempre rinnovati fino all’ultimo. L’intreccio delle relazioni, dicevo: in una certa provincia italiana ci si conosce tutti, specie tra quelli che contano. Insieme si progettano affari e vacanze, cene e consulenze, si stabiliscono matrimoni e ordini del giorno. E naturalmente si è pronti a scambiarsi favori, a chiudere un occhio quando va chiuso. Anche da parte di chi, come le Procure della Repubblica, avrebbe invece il dovere di tenerli spalancati.

«Che cosa ci si può aspettare da un Paese così?» viene malinconicamente da chiedersi. E viene da pensare al film della sua storia unitaria, al film degli ultimi 150 anni, che ormai sempre più spesso sembra riavvolgersi al contrario. Infatti è contro questa riottosa «società civile» intimamente sorda a ogni richiamo all’interesse generale, e contro i suoi animal spirits autocentrati e ciecamente acquisitivi, che da sempre se l’è dovuta vedere lo Stato italiano. Ed è contro di essa che tanto spesso sono sembrati naufragare i suoi tentativi di far valere regole di legalità e fini collettivi più ampi e più civili. Tentativi che oggi più che mai sembrano vani nel momento che a questo Stato è venuta meno l’arma della politica, e insieme quella sua preziosa appendice democratica rappresentata dai partiti, che in passato si è rivelata decisiva per imporre la propria volontà alle periferie. Per tenerle insieme, per legarle a un progetto capace di guardare lontano, oltre i loro confini e i loro interessi immediati. Oltre i consigli d’amministrazione bancarottieri e gli arricchimenti personali.

Ernesto Galli della Loggia, Il Corriere della Sera, 6-VIII-2016