Stato e persona nell’era della paura

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Stato e persona nell’era della paura*

il Farheneit 451 di Ray Bradbury (composto nei primi anni ’50) – varrà trarre l’invito o lo spazio per una comune riflessione.
Il libro sull’incendio dei libri suggerisce, al termine del racconto, la speranza in una salvezza possibile, attraverso la custodia della memoria e del pensiero critico come servizio da offrire all’emancipazione di ciascuno e della collettività intera.
Chi, nel tempo presente, ha il privilegio di svolgere una funzione intellettuale, ha il dovere di non dimenticare mai, per la fruttuosità di quell’impegno, accanto alla dolente ricapitolazione delle miserie umane, il senso vivo di una responsabilità comune.

* Il testo riprende l’intervento svolto nel corso dell’Assemblea Nazionale di Area Democratica per la Giustizia, in Roma, il 23 novembre 2018, nell’ambito della Sessione dedicata a I diritti nell’era securitaria e della paura.

1. L’accostamento dei temi del potere dello Stato e dei diritti della persona al sentimento della paura risponde ai termini di un lessico antico.
La valenza politica della paura risale, nella storia del pensiero e delle idee sull’arte di governo, alle pagine del Principe di Machiavelli, là dove le qualità dell’uomo di potere appaiono misurate sull’attitudine a procurare la soddisfazione dello spontaneo ed elementare bisogno umano di protezione dei sudditi.
Ancora più evidenti, nella prospettiva dello scambio tra la prestazione di sicurezza del sovrano e la cessione di libertà dei singoli, sono i passaggi del Leviatano di Hobbes (il terrificante mostro biblico) sul carattere simbolico del pactum subiectionis; segno di un preteso contrattualismo che, pur coattivamente imposto dall’alto, comunque si lega, idealmente, a una promessa di protezione.
Più vicina a noi nel tempo, nello sviluppo del pensiero archeologico di Michel Foucault, l’idea di fondo della pervasività costrittiva del potere finisce col travalicare i confini della riflessione dei teorici dello Stato assoluto, e si fa espressione costitutiva e identitaria del potere dello stato moderno in quanto tale, e della stessa concezione moderna della politica che rimonta fino alle catastrofi del XX secolo.
Secondo i canoni della governamentalità foucaultiana, il potere dello stato moderno è il lascito ereditario dell’antico potere pastorale della Chiesa: potere di conduzione e di cura delle anime sperse e impaurite, da guidare e dirigere secondo quegli stessi canoni che indurranno il Grande Inquisitore dostoevskiano a rimproverare, al Cristo redivivo, l’assurda parola sul libero arbitrio.
È proprio lo strutturale rapporto antinomico tra bisogno di sicurezza ed esercizio della libertà a tracciare l’orizzonte moderno della politica: nessuna prestazione di sicurezza collettiva potrà mai efficacemente adempiersi in assenza di adeguate restrizioni delle libertà individuali.

2. Dalla seconda metà del ‘900 (compiuta la parabola dello stato moderno con le follie del nazifascismo e del sovietismo malamente sopravvissuto fino al termine degli anni ‘80), il rapporto tra politica, paura e bisogno di sicurezza assume contorni nuovi.
Con la progressiva democratizzazione delle società avanzate e l’affermazione delle cosiddette costituzioni del dopo Auschwitz (secondo il parallelo percorso dei principi del codice di Norimberga e della rivoluzione del consenso informato - per cui nulla è più possibile al potere dello Stato sul corpo dell’individuo, se non legittimato dal consenso della persona), la prestazione di sicurezza del sovrano non legittima più, di per sé, la limitazione della libertà: il potere politico dev’essere in ogni caso legittimato dal consenso collettivo effettivamente espresso dall’intero corpo sociale.
Significativamente, il testo della Convenzione europea sui diritti dell’uomo sottolinea (agli artt. 8-11) come eventuali limitazioni al diritto della persona al rispetto della propria vita privata e familiare, alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, alla libertà di espressione o alla libertà di riunione e di associazione, sono possibili solo attraverso l’adozione di misure legislative che, a loro volta, costituiscano, in una società democratica, l’unico mezzo indispensabile per la tutela della sicurezza, della difesa dell’ordine e della protezione dei diritti e delle libertà altrui.
L’imbrigliamento del potere attraverso la condizione della necessaria acquisizione del consenso collettivo sollecita il singolare ritorno delle classi dirigenti contemporanee all’impiego di tecniche antiche, che richiamano alla memoria le pratiche già sperimentate nell’esperienza della democrazia ateniese, come attesta la riscoperta della retorica o dell’arte della persuasione.
Occorrerà procurarsi o fabbricare il consenso politico attraverso il ricorso alla sollecitazione emotiva, più ancora del discorso razionale.
Il modello commerciale della pubblicità, funzionale alla più larga distribuzione dei prodotti di massa, diventa il parametro metodologico o strategico della fabbricazione scientifica del consenso politico.
Si tratta della dimensione critica più profonda e delicata dei temi imposti dalla crisi delle democrazie contemporanee.
Non casualmente, nel cuore tenebroso del Novecento, Martin Heidegger selezionerà, tra le diverse passioni mirabilmente descritte da Aristotele nel secondo libro della Retorica, la paura (il Φόβος) – e dunque l’emozione dettata da una minaccia incombente – come la disposizione dell’animo collettivo tra le più propizie su cui far leva a fini di persuasione e di consenso.
Da qui il mutamento di strategia del potere, attraverso l’uso politico della paura: la paura rende docili e il bisogno di sicurezze induce più agevolmente il consenso alle limitazioni della libertà.
La risposta politica al bisogno di sicurezza, là dove si materializza attraverso la coazione fisica nelle società civilmente involute e in quelle totalitarie, si risolve, nelle società democraticamente più sofisticate, nella surrettizia e massificata induzione di modelli o stili di vita disponibili alla conformazione, e dunque nell’organizzazione strutturale del controllo sociale dei comportamenti, che lega l’idea carceraria del Panopticon di Jeremy Bentham alla riflessione foucaultiana della sorveglianza generalizzata.
Si tratta del consolidamento della c.d. società della sorveglianza ritratta dai capolavori di un genere letterario (quello delle c.d. distopie politiche) che con lungimirante sensibilità restituisce il tratto, mostruoso e nascosto, della vita collettiva delle contemporanee società di massa.
Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley propone, negli anni ’30, la descrizione futuribile dell’uniformazione materiale dell’uomo (della produzione in serie, fordista, dell’umano) attraverso la cancellazione della sua storia, delle sue memorie culturali e di una qualunque idea della diversità.
È l’oscura prefigurazione del tempo a venire (quella che alimenterà i sogni, o gli incubi, di una certa letteratura o di una certa cinematografia al confine tra fantascienza e orrore) ribadita da un altro capolavoro distopico – il 1984 di Orwell, composto a ridosso degli anni della seconda guerra mondiale – che apre allo sguardo comune il carattere perverso dei legami tra il potere politico e la sorveglianza totale del Grande Fratello.
La sorveglianza di cui si parla è propriamente il controllo sul rispetto di standard e di uniformità di stili di vita; lo stato controllante è lo stato che induce l’idea dell’esistenza conformata come l’unica modalità di realizzazione della prestazione di sicurezza: una modalità che necessariamente nega o rifiuta le differenze.
Con il termine differenza occorre qui intendere, non solo (o non tanto) il dissenso o la protesta – che pure possono essere consentite o tollerate, al fine di propagandare l’idea di una (superficiale) apertura al dialogo democratico – ma, più in profondità, il rilievo negativo delle difformità dei valori o degli stili di vita di individui e di minoranze.
Il limite positivo che il costituzionalismo interno o sovranazionale impone alla codificazione formale del controllo sociale dei comportamenti, non impedisce che questo avvenga surrettiziamente, o di fatto, attraverso gli strumenti della tecnologia informatica, con la raccolta e l’indicizzazione di masse di dati personali (la vicenda del c.d. scandalo Cambridge Analytica costituisce solo una pallida idea del tema) e della comunicazione sociale (dalla televisione, al cinema, alla stampa, fino alla frequentazione scolastica e universitaria, ai dialoghi sul posto di lavoro, allo scambio sui social networks), attraverso i processi di normalizzazione culturale che preludono all’omologazione e al conformismo nei modi di conduzione e di realizzazione della vita delle persone.
Si tratta dei temi che, nel discorso esistenzialista di metà secolo, venivano traducendosi nella denuncia del conformismo come rischio proprio della convivenza e dell’heideggeriana dittatura del ‘si’ (si fa, si dice, si pensa...), ossia della tirannia dell’opinione o della chiacchiera fugacemente scambiata nel tratto superficiale della quotidianità.
Circolano, in queste forme di scambio (profittando della distrazione, della pigrizia o anche solo della stanchezza intellettuale), modelli di costruzione di senso e paradigmi simbolici che sono conseguenza di una drastica e ben selezionata riduzione dei temi del dialogo pubblico e, insieme, degli stereotipi comunicativi destinati a diffonderli.
Esemplificando, non è difficile, esponendo con studiata metodologia la frequenza delle incursioni furtive nei luoghi privati, unita al rilievo dell’inefficienza degli apparati statali, indurre il tema della legittimità dell’autodifesa, anche armata.
Neppure è difficile, attribuendo un calibrato rilievo formale alla comunicazione giornalistica delle periodiche follie terroristiche (malamente legate a confuse ispirazioni confessionali di matrice estera), insieme alla descrizione degli esiti fallimentari delle politiche di integrazione urbana degli stranieri, indurre l’idea dell’immigrazione come la fonte di pericolo par excellence per l’ordine e la sicurezza collettivi.
Ancora agevole, legando la cronaca civile all’happening di genere, risulta l’insinuazione del sospetto che la procreazione assistita, come una più realistica disciplina dell’adozione o la parità omosessuale, valgano a preludere alla catastrofica dissoluzione della famiglia tradizionale.
In breve, la gestione politica della paura tende a far leva sul naturale sentimento di inquietudine che inevitabilmente accompagna il rapporto con la diversità, nella misura in cui la diversità rappresenta il simbolo di ciò che non è noto, di ciò di cui non sono conosciuti, né i termini, né le forme.
E le espressioni più profonde, e ultimative, di ciò che non è noto sono proprio le conseguenze dell’esercizio della libertà (la paura delle responsabilità) e il pensiero stesso del futuro, rispetto ai quali occorrerebbe saper assumere una posizione capace di scorgere – oltre la sconfitta della chiusura o della conservazione – i segni di una possibile apertura critica.
All’astratta declamazione della varietà del catalogo dei diritti della persona (dal diritto all’informazione, a quello di manifestazione del pensiero, alle libertà associative, di riunione, di professione di fede, dalle forme di esplicazione della sessualità fino alle espressioni della libertà nell’esercizio delle preferenze di consumo) corrisponde, in senso largamente riduttivo, l’insinuazione di modelli culturali inclini a favorire un esercizio il più possibile conformato (o conformistico) delle prerogative individuali: finalità che pericolosamente si saldano con l’esigenza di uniformazione del gusto proprio del sistema della produzione di massa.
Il carattere paradossale del fenomeno può essere misurato se solo si rifletta come, tutto al contrario, il riconoscimento dei diritti comparve, tra i principi fondamentali della Costituzione italiana del 1948, come la solenne celebrazione dell’originalità della persona, affidata all’esercizio delle proprie libertà e delle prerogative di autodeterminazione (lo svolgimento della personalità di cui all’art. 2) fuori da ogni forma di controllo eteronomo.
La scelta adottata dall’Assemblea costituente (con riguardo alla tutela della salute sancita dall’art. 32 della Costituzione) di imporre al legislatore il limite assoluto costituito dal rispetto (non già della dignità, ma) della persona umana, nella sua integralità e originalità, volle significare il riconoscimento della libertà di ciascuno di costruire la propria nozione di dignità in funzione delle proprie scelte personali e dei valori individualmente perseguiti; l’identificazione dello spazio di praticabilità di quell’esistenza libera e dignitosa (dignitosa in quanto libera) che l’art. 36 della Costituzione andava legando ai temi del lavoro e della retribuzione.
Il vero tema politico degli anni a venire è dunque il tema (eterno) – oggi destinato a rinnovarsi con accenti di drammaticità – dello spazio riservato all’edificazione dell’autenticità della persona.
Volendo ridurre ai termini di uno slogan il senso ultimo del discorso, può affermarsi la necessità di coltivare, da parte di ciascuno – vorrebbe dirsi cartesianamente – una sorta di capacità dubitativa, un’attitudine a sospettare criticamente dei propri consensi pubblici e privati, cercando di sorvegliare con cura le ragioni che animano le adesioni prestate o i dissensi opposti alle continue offerte del mondo circostante.

3. Ci si può allora interrogare sui rischi cui è esposto il lavoro del giudice (o, più in generale, dell’interprete di testi giuridici) quando è richiesto di contribuire (com’è suo dovere, secondo il vincolante imperativo costituzionale) a garantire la praticabilità di quegli spazi riservati all’edificazione dell’autenticità della persona.
La vita dei testi giuridici (il diritto vivente) è ciò che risulta da quell’eterno dialogo tra le memorie culturali di una comunità (i principi e i valori sperimentati e filtrati dal suo tempo storico) e le emergenze del tempo presente; dall’incontro di tradizione e innovazione; dalla combinazione dinamica (talora tragica) tra cultura e politica.
Il tema dell’edificazione dell’autenticità della persona è valore compreso e conquistato nel tempo storico; si è imposto dalle pagine dei filosofi (dal sapere aude kantiano) alla violenza politica dei rivoluzionari americani e francesi, fino a percorrere il deserto delle drammatiche evoluzioni dello stato moderno caduto ad Auschwitz.
Le implicazioni dei processi di Norimberga, divenute materia di normazione costituzionale, sono la parte dove si colloca il diritto democratico e la cultura che spetta al giudice di difendere e garantire.
Quando si afferma che l’esercizio della discrezionalità politica, nell’ambito dei rapporti internazionali tra Stati, può avvenire legittimamente senza alcuna adeguata considerazione delle condizioni minime di rispetto della dignità delle persone e dei loro corpi ristretti, in assenza di un quadro definito di legalità, si fanno affermazioni che, pur quando possano trovar riscontro sul piano formale, insinuano veleni di cui è dubbio si siano intuiti con chiarezza le implicazioni e i pericoli.
Quando si afferma che il riconoscimento di un diritto a una morte dignitosa si porrebbe in palese contrasto con lo spirito della Carta costituzionale e con diverse norme della legislazione vigente, si rischia di assolutizzare in modo improprio una lettura del tutto opinabile del sistema, peraltro interpretato in termini diametralmente opposti dalle più recenti prese di posizione della Corte Costituzionale.
Sono passaggi che pure hanno trovato un’eco in taluni testi formali della nostra giurisprudenza e di cui sfuggono le ragioni o i motivi di coerenza con i principi della cultura democratica chiamata a opporsi alle ricorrenti forzature della politica.
Lungo gli itinerari dei diritti della persona capita di annoverare le occasioni del conflitto e della reciproca incompatibilità delle pretese: si ripropone, in questo contesto, un tratto caratteristico dell’esperienza giuridica del nostro tempo, che è quella dell’impossibilità di individuare ragioni assolute di prevalenza, là dove si rende opportuna la comparazione, il confronto e il dialogo tra prospettive differenti od opposte in vista di una possibile conciliazione.
Il modello dell’obiezione di coscienza è quello in cui, nel modo più esemplificativo, a una tecnica propria della società pluralista (qual è il diritto dell’obiettore di difendere, dallo strapotere dell’etica dei più, la fedeltà al sistema di valori cui è informata la propria coscienza morale) può accadere di incontrare, in termini di tragica contraddizione, l’esercizio di fondamentali prerogative altrui.
È un confronto per cui dallo stesso contesto pluralistico da cui muove il senso dell’obiezione di coscienza occorre si tragga anche l’indispensabile attitudine al bilanciamento delle istanze incompatibili, in nome della convivenza possibile e sul presupposto che il principio di autodeterminazione, per sua stessa natura, non può che ripudiare un esercizio delle proprie facoltà con effetti diretti di eterodeterminazione.
Anche nell’ambito delle forme di esercizio dell’obiezione di coscienza varrà imparare a smascherare l’abuso opportunistico, che risale all’iniziativa di singoli, così come l’ideologia che ne alimenta il ricorso strumentale da parte di minoranze fortemente organizzate a fini di sabotaggio di provvedimenti legislativi non condivisi.
Un approccio consapevole alla difficile attività di interpretazione dei testi giuridici richiede, nella prospettiva contemporanea dell’emancipazione di individui e di gruppi, la capacità di calare il formante legislativo in un contesto di formanti diversi, talora di livello anche superiore all’ordine legislativo, e di valorizzare gli aspetti di una normatività debole, flessibile o mite, suscettibile di insinuarsi in modo compatibile ed efficace nella disciplina dei singoli casi concreti.
La caratteristica verosimilmente più salente del diritto contemporaneo è quella di essere un diritto a vocazione giurisprudenziale, per cui è richiesta al giudice la capacità di svolgere un’adeguata riflessione a fini di coordinamento, di consolidamento e di sistematizzazione, per l’immanente necessità di rendere compatibili le diverse fonti che incidono contestualmente all’interno di un medesimo ambito collettivo.
Si è in precedenza accennato – ricordando i nomi di Aldous Huxley e di George Orwell – a talune tra le più note distopie letterarie del Novecento.
Da un’altra di queste – il Farheneit 451 di Ray Bradbury (composto nei primi anni ’50) – varrà trarre l’invito o lo spazio per una comune riflessione.
Il libro sull’incendio dei libri suggerisce, al termine del racconto, la speranza in una salvezza possibile, attraverso la custodia della memoria e del pensiero critico come servizio da offrire all’emancipazione di ciascuno e della collettività intera.
Chi, nel tempo presente, ha il privilegio di svolgere una funzione intellettuale, ha il dovere di non dimenticare mai, per la fruttuosità di quell’impegno, accanto alla dolente ricapitolazione delle miserie umane, il senso vivo di una responsabilità comune.

Marco Dell’Utri, Giustizia insieme, 20-XII-2018