Magistrati fuori dal sottogoverno

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Magistrati fuori dal sottogoverno

Csm. Il problema non è tanto l’organo di autogoverno, quanto la magistratura. Lo scandalo era, per molti versi, uno scandalo annunciato
Lo scandalo sulle frequentazioni di Luca Palamara e dei maneggi tra componenti del Csm e politici (tra cui Cosimo Ferri, magistrato in aspettativa, e Luca Lotti, ex ministro renziano inquisito a Roma) per pilotare la nomina del Procuratore della capitale ha aperto una crisi gravissima nel Csm.
Il Consiglio superiore della magistratura è messo in condizioni prossime alla paralisi dalle dimissioni di un componente e dall’autosospensione di altri quattro (evidentemente suggerite dal colle più alto) e con un drammatico dibattito in corso sulla sua stessa sopravvivenza (solo momentaneamente sopito dal documento approvato ieri l’altro dal plenum).

La gravità della vicenda ha prodotto reazioni all’apparenza molto dure, culminate da ultimo nella richiesta di ulteriori dimissioni da parte del presidente dell’Associazione magistrati. Ma l’impressione è che ancora sfugga, per superficialità o per scelta, la reale entità dei problemi e dei rimedi necessari.
Concentrare l’attenzione e le critiche sul Csm è, infatti, fuorviante. Il problema non è tanto l’organo di autogoverno, quanto la magistratura. Lo scandalo era, per molti versi, uno scandalo annunciato. Il ruolo di Cosimo Ferri come cerniera tra la magistratura e il sottobosco (bipartisan) della politica è noto da lustri e Magistratura indipendente, che a lui continua a fare capo, ha incrementato proprio per questo i suoi consensi. E da sempre l’adesione a Unità per la costituzione è una sorta di assicurazione per giudici e pubblici ministeri alla ricerca di un incarico direttivo. Il Consiglio non è un organismo con logiche proprie ma quel che vuole una parte consistente (anche se non maggioritaria) della magistratura. A ciò le correnti interne (alcune di esse in particolare) hanno aggiunto del loro, ma il problema non nasce qui.
Il clientelismo e la ricerca di protezioni politiche, anche tra i magistrati, ha radici antiche se è vero che già un secolo fa la legge n. 438 del 1908 vietava a giudici e pubblici ministeri di ricorrere alle raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera. Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto con cui Dante Troisi descrive (in Diario di un giudice del 1955) il collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non può ambire alla “meritata promozione”… Se poi posso citare un’esperienza personale, aggiungo che tutto ciò l’ho toccato con mano durante la mia esperienza consiliare, dal 2006 al 2010, in cui molte sono state le richieste di “appoggi” e altrettante le amicizie cancellate per non averli accordati. Allo stesso modo la disinvoltura e (a volte) la spregiudicatezza nei rapporti di alcuni magistrati con il sottobosco politico e affaristico non sono una novità, ancorché sottovalutate dalla corporazione (e dai rapporti dei capi degli uffici).
A questa situazione occorre cercare di porre rimedio se si vuole davvero incidere sulla sua escrescenza nell’autogoverno giudiziario e sulle relative avvilenti manifestazioni.
Che fare, dunque? Non ci sono scorciatoie e nessuno ha la bacchetta magica. Ma qualche indicazione è possibile. Non servono esercizi di ingegneria istituzionale o, peggio, soluzioni bizzarre come il sorteggio dei componenti del Consiglio (che, a tacer d’altro, non toccano la struttura della corporazione). Ciò che occorre è, anzitutto, una forte ripresa di iniziativa delle componenti progressiste della magistratura per denunciarne e combatterne cadute e compromissioni ché, da sempre, il malcostume si contrasta contrapponendovi una cultura e un metodo di confronto alto sulle idee e sui progetti. Dopo un lungo appannamento vedo, al riguardo, incoraggianti segnali di ripresa. Soprattutto in Magistratura democratica, tornata finalmente a occuparsi di analisi critiche della magistratura e della giurisdizione più che di nomine e di incarichi, come si vede dalle pagine della sua rivista online “Questione giustizia”. E poi occorre acquisire la consapevolezza che non si correggono i vizi del Consiglio ripristinando modelli burocratici peggiori degli attuali. Gli antidoti alle degenerazioni sono una vera temporaneità degli uffici direttivi (che riporti i dirigenti al ruolo di primi inter pares e ne elimini o attenui il carattere di centri di potere che – come nel caso della Procura di Roma – valgono nel Cencelli della politica come due o tre ministeri) e la fuoruscita dei magistrati dai luoghi, per essi impropri, del sottogoverno, a cominciare dai ministeri (dai quali è oggi possibile transitare direttamente negli uffici più delicati del Paese).

 

Livio Pepino, Il Manifesto, 6-VI-2019