Strage di Bologna, 2 agosto 1980, ecco il quinto uomo

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Strage di Bologna, 2 agosto 1980, ecco il quinto uomo

I fotogrammi di un filmato in cui appare il terrorista nero Paolo Bellini. L’appunto di Licio Gelli. Un verbale compromettente. I documenti nascosti per anni chiariscono nel processo la natura della strage più grave nella storia della Repubblica, con il coinvolgimento di fascisti e piduisti
Nell’ultimo mistero doloroso della destra italiana si contempla, nella sacralità di una Corte d’assise, il crollo dell’alibi del quinto accusato per la strage di Bologna. Un neofascista. Come i quattro terroristi già condannati per la bomba del 2 agosto 1980, il più grave attentato della nostra storia. La matrice politica dell’eccidio, da sempre contestata dalla destra anche in Parlamento, è scolpita nella lapide, collocata in stazione sul muro squarciato dall’esplosione, che ricorda i nomi delle 85 vittime (e oltre 200 feriti) di quella «strage fascista». Il nuovo processo, dove l’ex killer nero Paolo Bellini ora si ritrova incastrato dalle testimonianze dei suoi stessi familiari, aggiunge un aggettivo cruciale: piduista.

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Come in molte altre trame della P2, la ricerca della verità parte dai pezzi mancanti. In questo caso, un video. Un filmato girato da un ignaro turista tedesco, che riprende il primo binario della stazione tra le 10.13 e le 10.25, quando scoppia la bomba. Nelle immagini finali si vedono i feriti, le macerie, i morti, il disastro: la strage in diretta. Il video è stato recuperato dall’avvocato dei familiari delle vittime, Andrea Speranzoni, che nell’udienza del 21 luglio scorso ha ricostruito così la scoperta: «Come legali di parte civile nel processo al terrorista dei Nar Gilberto Cavallini, tra il 2018 e il 2019, ci eravamo messi a cercare, semplicemente, le prove visive dei danni, della devastazione prodotta dalla bomba. Gli atti sono stati digitalizzati, per cui tra montagne di faldoni abbiamo potuto ritrovare questo video, regolarmente repertato, con un’anomalia: la polizia aveva estratto 25 fotogrammi, ma gli ultimi sette mancavano. Nei processi sulle stragi abbiamo imparato, purtroppo, che le notizie più importanti si trovano negli atti nascosti, cancellati, distrutti. Quindi ci siamo concentrati sulle parti del video dove erano sparite le fotografie». E qui, dietro una

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Il camerata emiliano era stato indagato per la strage di Bologna già nei primi anni ’80. Fin da allora la polizia aveva diffuso l’identikit di «un uomo visto allontanarsi precipitosamente dalla sala d’aspetto della stazione poco prima dell’esplosione», avvertendo che somigliava moltissimo «al noto neofascista Paolo Bellini». La nuova indagine ha recuperato anche le testimonianze di due detenuti, che riferivano le confidenze fatte all’epoca da suo fratello Guido, in carcere, poco prima di morire: «La bomba a Bologna l’ha portata Paolo Bellini, che ha incassato 100 milioni di lire». Il 9 marzo 1983, però, l’indagato ha opposto un alibi, confermato il giorno stesso dalla moglie, Maurizia Bonini: non poteva essere a Bologna alle 10.25, perché alle 9.30 era ancora a Rimini, in partenza per una vacanza con la famiglia al Tonale. Quell’alibi, che gli era valso l’archiviazione, ha resistito per quasi quarant’anni.
Solo nel 2019, quando la procura generale le ha mostrato il video, la signora Maurizia ha ammesso che aveva dichiarato il falso. E in questi giorni lo ha giurato davanti alla Corte d’assise: «Allora avevo 25 anni, non potevo immaginare che Paolo avesse una vita parallela di criminale: ho detto una bugia, pensavo volessero incastrarlo, ho saputo solo dopo la separazione che era un assassino». La mattina della strage, in verità, Bellini arrivò a Rimini «molto tardi», conferma oggi la madre dei suoi due figli: «Infatti la parente che mi aveva accompagnato è tornata a pranzo in ritardo, facendo arrabbiare suo marito». Un dato confermato, sotto giuramento, anche dal fratello Michele. Sull’uomo del video, la signora non ha dubbi: «È sicuramente il mio ex marito, lo riconosco da quella fossetta sulla guancia...». La testimone conferma pure un altro indizio: «Quando era latitante in Brasile, si è fatto togliere un neo e accorciare il naso».
Bellini è stato per almeno trent’anni un criminale professionista collegato al terrorismo nero, alla mafia e ad apparati dello Stato. Già nel 1975, quando era un neofascista di Avanguardia Nazionale, ha commesso il suo primo «omicidio politico»: ha ucciso uno studente emiliano di sinistra, Alceste Campanile, come ha confessato lui stesso troppi anni dopo, quando la prescrizione lo ha salvato. Nel 1976, inseguito da un mandato di cattura per un altro tentato omicidio, Bellini scappa in Brasile, dove ottiene un passaporto di copertura, come quelli dei servizi: un documento autentico con generalità fittizie.
Con quella falsa identità brasiliana rientra in Italia, aiutato da politici e avvocati di destra, ottiene il brevetto di pilota a Foligno e fa volare gratis personaggi legati ai servizi come l’allora procuratore di Bologna, Ugo Sisti, che è amico di suo padre, ma non denuncia il latitante. Dopo un altro decennio di carriera criminale tra furti d’arte e altri omicidi impuniti, nel 1991 Bellini ricompare in Sicilia, come infiltrato dei carabinieri del generale Mario Mori (che al processo di Bologna si è avvalso della facoltà di non rispondere), e diventa protagonista della prima trattativa tra Stato e mafia, l’unica ammessa da tutti: il pentito Giovanni Brusca giura che fu lui a suggerire a Cosa nostra la strategia terroristica di attacco ai monumenti, attuata con le stragi del 1993. Dopo di che, per non farsi mancare niente, l’ex neofascista diventa un killer della ‘ndrangheta in Emilia. Ora i suoi avvocati, nel processo di primo grado, rivendicano che per la strage di Bologna va considerato innocente: «Ha fatto cose orribili, ma non delinque dal 1999. Oggi è un altro uomo: un collaboratore di giustizia riconosciuto attendibile da molti tribunali. Smettiamo di trattarlo come il Bellini di 22 anni fa». La difesa, però, continua a puntare sull’alibi ora franato
Per accertare se sia davvero colpevole, bisognerà aspettare la fine dei tre gradi di giudizio. Ma sulla bomba di Bologna, a differenza di troppe altre stragi nere, la verità storica e giudiziaria è già stata scritta, almeno per gli esecutori e depistatori. Primo fatto incontestabile: la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, terroristi e killer dei Nar. Decisa fin dal 1995 dai più autorevoli magistrati italiani: la Cassazione a sezioni unite. Quindi, in un altro processo con giudici diversi, viene condannato il terzo complice: Luigi Ciavardini, neofascista di Terza Posizione entrato nella banda di Fioravanti a 17 anni, poco prima della strage di Bologna, partecipando all’omicidio del magistrato Mario Amato. Tre condannati all’ergastolo, ma all’italiana: senza mai pentirsi né risarcire le vittime, sono liberi da anni. Le indagini più recenti, aperte dalla procura generale su impulso dei familiari delle vittime, hanno portato nel 2020 alla quarta condanna, in primo grado, per Gilberto Cavallini, armiere, tesoriere e grande vecchio dei Nar. Il processo a Bellini completa il quadro. E chiama in causa anche il capo della P2, morto nel 2015, come presunto «mandante e finanziatore».
Licio Gelli era già stato condannato in via definitiva, insieme ai vertici piduisti del Sismi, come stratega dei più gravi depistaggi: una lunga serie di false «piste internazionali», inventate per salvare i neofascisti italiani, arrivando a nascondere armi ed esplosivi, nel 1981, su un treno per Bologna. La nuova accusa nasce dal ritrovamento di carte sparite: i documenti pubblicati dall’Espresso un anno fa, nel quarantesimo anniversario della strage. Sono manoscritti sequestrati tra Castiglion Fibocchi e la Svizzera, dove Gelli stesso annota di aver distribuito un milione di dollari in contanti, attraverso il suo tesoriere-prestanome Marco Ceruti, tra il 20 e il 30 luglio 1980, alla vigilia dell’attentato, come «anticipo». E altri quattro milioni, come «saldo», tra agosto e il primo settembre: bonifici smistati da faccendieri romani legati alla destra eversiva e ai servizi piduisti. Questi 5 milioni, rubati al Banco Ambrosiano, erano collegati dallo stesso Gelli a Bologna, ma il documento con il nome della città è stato nascosto ai magistrati milanesi, probabilmente da un militare corrotto.
Un milione di dollari risulta incassato da una super-spia piduista, Federico Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio Affari Riservati, che ha ricevuto l’ultimo bonifico di Gelli, su conti esteri mai dichiarati, due giorni prima della strage di Bologna, mentre a Milano esplodeva un’autobomba ora collegata ai Nar. Tra gli atti occultati c’è anche il verbale «riservatissimo» di un incontro del 1987 al Viminale, dove l’avvocato di Gelli chiedeva di insabbiare le indagini su Bologna, avvertendo che altrimenti «tirerà fuori gli artigli». Un ricatto allo Stato che ha funzionato: anche il «documento artigli» era scomparso. Mai protocollato, è stato ritrovato dai magistrati nell’«archivio parallelo» di D’Amato, scoperto dopo la sua morte sulla via Appia.
Nonostante le condanne definitive, schiere di negazionisti di destra, fiancheggiati da qualche fantasista di sinistra, continuano da 41 anni a difendere i terroristi neofascisti rilanciando le fantomatiche «piste estere» tanto care alla P2. Pista libanese. Libica. Palestinese. Francese. Tedesca. Le nuove indagini hanno demolito anche l’ultima variante: la pista del super-terrorista Carlos fu «pre-fabbricata da ufficiali piduisti del Sismi», addirittura prima della strage, «pagando giornalisti di destra».
Il processo in corso riguarda fatti in apparenza lontani, ma ripropone problemi ancora attuali. Il capo della P2 è morto, ma il piduismo vive e continua a fare danni. E sulla memoria delle stragi l’Italia resta un paese spaccato. Da una parte c’è chi rifiuta di accettare le sentenze della Cassazione. Dall’altra ci sono persone come Silvia, la figlia di Paolo Bellini, che in corte d’assise ha commosso avvocati e magistrati: «Nel 1980 avevo 9 anni, del mio padre biologico ho pochi ricordi: ho cambiato cognome per non riconoscermi in una persona che ha fatto tanto male. Il mio vero papà è stato il nonno materno, Tullio. Come familiare, avrei potuto comunque rifiutarmi di deporre, ma ho deciso di testimoniare, perché penso che sia giusto per i familiari delle vittime, anche se per la mia famiglia questo processo è una grande sofferenza. Spero veramente che possa far luce su una strage così grave, per dare giustizia a tutte le vittime».

L’Espresso, Paolo Biondani, 30-VII-2021