Caso Ruby, ci si può dimettere contro un’ingiustizia

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Caso Ruby, ci si può dimettere contro un’ingiustizia

Corruzione. Le dimissioni del giudice Tranfa dopo la sentenza d’appello sul «caso Ruby» sono lecite. Sbaglia la magistratura a stracciarsi le vesti in modo corporativo. Piuttosto, si consenta ai magistrati di presentare la propria sentenza «di minoranza» come accade nei giudizi di altri paesi

L’assoluzione in appello di Sil­vio Ber­lu­sconi dai reati di con­cus­sione e pro­sti­tu­zione mino­rile nel cosid­detto caso Ruby con­ti­nua a far discutere.

Dap­prima la moti­va­zione della sen­tenza: «È stato accer­tato aldilà di ogni ragio­ne­vole dub­bio che durante alcune serate orga­niz­zate in com­pa­gnia delle più disi­ni­bite ragazze che erano solite fre­quen­tare Arcore e trarne uti­lità eco­no­mi­che, atti­vità di pro­sti­tu­zione fu effet­ti­va­mente svolta e con moda­lità signi­fi­ca­ti­va­mente ricor­renti. […]Si trat­tava di un sistema in cui l’aspetto fisico, la dispo­ni­bi­lità delle donne a esi­bire i pro­pri attri­buti fem­mi­nili, insce­nare esi­bi­zioni sedut­tive e ero­tiz­zanti pro­vo­care e con­sen­tire even­tuali toc­ca­menti erano cre­den­ziali apprezzate».

E anche la dicias­set­tenne El Mah­roug Karima detta Ruby era par­te­cipe del sistema, come con­fer­mato dal bru­sco innal­za­mento del tenore di vita della ragazza in con­tem­po­ra­nea con le visite ad Arcore. A ciò vanno ricol­le­gate le tele­fo­nate effet­tuate in que­stura per otte­nere l’immediato (e ille­git­timo) rila­scio di Ruby, in quanto «con la fuo­riu­scita della gio­vane dall’area di con­trollo delle auto­rità mino­rili l’allora pre­si­dente del Con­si­glio vedeva dimi­nuire il rischio che la stessa rive­lasse i retro­scena com­pro­met­tenti della loro frequentazione».

E tut­ta­via l’imputato eccel­lente deve essere assolto: per­ché manca la prova che, all’epoca della fre­quen­ta­zione, egli fosse con­sa­pe­vole della minore età della sua gio­vane favo­rita e per­ché le pres­sioni da lui eser­ci­tate, sep­pur inde­bite, «non espri­mono né impli­ci­ta­mente tra­di­scono alcun con­te­nuto minatorio».

La let­tura della moti­va­zione con­ferma le per­ples­sità espresse all’atto della pro­nun­cia del dispo­si­tivo. I giu­dizi di fatto sono certo opi­na­bili ma soste­nere che qual­cuno (nella spe­cie il pre­si­dente del Con­si­glio) chieda il rila­scio di una ragazza trat­te­nuta in que­stura per­ché mino­renne igno­ran­done (e aven­done igno­rato nei pre­ce­denti mesi di intima fre­quen­ta­zione) la minore età è cosa a dir poco ardita.

E lo stesso vale per le con­si­de­ra­zioni in diritto, essendo dav­vero spe­ri­co­lato soste­nere che la richie­sta dell’ex cava­liere, fatta anche con una tele­fo­nata not­turna a casa del respon­sa­bile della Que­stura, di libe­rare (ille­git­ti­ma­mente e con­tro l’indicazione del magi­strato mino­rile) l’avvenente Ruby vada inter­pre­tata come un sem­plice (sep­pur fasti­dioso) sug­ge­ri­mento ini­do­neo a con­di­zio­nare il fun­zio­na­rio. È come dire che la costri­zione, ele­mento costi­tu­tivo del delitto di con­cus­sione, esi­ste solo in caso di minac­cia espli­cita (magari con armi): cioè mai, ché non sono certo que­ste le inti­mi­da­zioni usate dai pub­blici ufficiali.

Sem­brava, a que­sto punto, che il discorso fosse chiuso, salvo le valu­ta­zioni dei giu­ri­sti e dell’opinione pub­blica, in attesa del giu­di­zio della Cassazione.

E invece no.

Subito dopo avere sot­to­scritto la moti­va­zione, il 16 otto­bre, il pre­si­dente del col­le­gio giu­di­cante ha comu­ni­cato al Con­si­glio supe­riore la deci­sione di lasciare, con effetto imme­diato, la magi­stra­tura. Una deci­sione all’evidenza dirom­pente, pre­sen­tata dai media in modo uni­voco: «Con un gesto senza pre­ce­denti nella sto­ria giu­di­zia­ria ita­liana, Enrico Tranfa, il pre­si­dente del col­le­gio della Corte d’appello di Milano nel pro­cesso Ruby, ieri si è dimesso di colpo dalla magi­stra­tura con una scelta che svela così il suo radi­cale dis­senso dalla deci­sione, matu­rata nella terna del suo col­le­gio, di assol­vere l’ex pre­si­dente del Con­si­glio Sil­vio Berlusconi».

Sono pas­sati due giorni ed è inter­ve­nuto, con una nota for­male, il pre­si­dente della Corte di appello di Milano per stig­ma­tiz­zare il com­por­ta­mento di Tranfa osser­vando che «le sue dimis­sioni non appa­iono coe­renti con le regole ordi­na­men­tali e deon­to­lo­gi­che se det­tate dal motivo di segnare il per­so­nale dis­senso rispetto alla sen­tenza asso­lu­to­ria di appello nel pro­ce­di­mento a carico di Sil­vio Berlusconi».

Di male in peg­gio, vien da dire. Non cono­sco i giu­dici coin­volti nella deci­sione e nulla so delle ragioni (evi­den­te­mente gravi, almeno da un punto di vista sog­get­tivo) che hanno indotto il pre­si­dente del col­le­gio a una deci­sione dra­stica come le dimissioni.

Ma ci sono pro­blemi di prin­ci­pio che tra­va­li­cano le vicende per­so­nali. In par­ti­co­lare la pre­tesa, sot­to­stante alla nota del pre­si­dente della Corte mila­nese, di esclu­dere finan­che il diritto ad andar­sene di chi vuol pren­dere le distanze da deci­sioni per lui inac­cet­ta­bili rivela una con­ce­zione buro­cra­tica della magi­stra­tura che ci riporta indie­tro di decenni. Io non so – lo ripeto – se sia stata que­sta la ragione della scelta di Tranfa ma se lo è stata, tanto di cap­pello! L’assunzione di respon­sa­bi­lità per­so­nali, infatti, non piace alle cor­po­ra­zioni ma è un fat­tore di tra­spa­renza. E non c’entra nulla la vio­la­zione del segreto della camera di con­si­glio che ne è, caso mai, un effetto indiretto!

Piut­to­sto, anzi­ché strac­ciarsi le vesti, sarebbe il caso di aprire final­mente un con­fronto sull’introduzione, anche nel nostro Paese, della facoltà, per il giu­dice rima­sto in mino­ranza, di depo­si­tare la pro­pria moti­va­zione dis­sen­ziente (così col­le­gando l’autorevolezza delle deci­sioni alla soli­dità degli argo­menti con­trap­po­sti e non al peso di una una­ni­mità solo apparente).

Livio Pepino,Il Manifesto, 20-X-2014