Da Machiavelli a Greta, viaggio dentro un’idea

Attenzione: apre in una nuova finestra. PDFStampaEmail

Da Machiavelli a Greta, viaggio dentro un’idea

Intervista con Maurizio Viroli, allievo di Norberto Bobbio, uno dei massimi esperti mondiali dell’autore del “Principe”, scritto da Roberto Bertoni 29 Ottobre 2019
L’intervista che qui di seguito pubblichiamo appare nell’ultimo numero monografico (3/2019) della rivista Arel dal titolo “Nemico“. Un invito alla conoscenza, all’approfondimento, al rifiuto della logica amico-nemico applicata a qualsivoglia campo di azione, dalla politica alla professione, alle contrapposizioni tra le priorità vere o presunte, ai rapporti interpersonali.
Continua così la nostra collaborazione con la rivista fondata da Beniamino Andreatta. Anche questa volta, come avvenne con il precedente numero ”Straniero”, anticipiamo online alcuni articoli della rivista cartacea, ringraziando la direzione e la redazione per la gradita cortesia.
Maurizio Viroli, già allievo di Norberto Bobbio, professore emerito a Princeton e attualmente docente ad Austin, in Texas, è uno dei massimi esperti mondiali di Machiavelli. L’abbiamo incontrato nella sua casa di Firenze, là dove l’oggetto dei suoi studi ha svolto l’attività e maturato le riflessioni per cui tuttora è ricordato, e ci ha accompagnato in un lungo e avvincente viaggio alla scoperta del concetto di nemico. Un concetto che una parte del mondo cattolico rifiuta integralmente e che, al contrario, il laico professor Viroli, da azionista qual è, considera alla base della Resistenza, ossia dell’esperienza fondativa della nostra Repubblica. Una connessione sentimentale fra epoche storiche e molto altro ancora.
Cos’è per lei il nemico? Concepisce o rifiuta radicalmente questo concetto?
Condivido l’idea di nemico che abbiamo ereditato dai classici greci e romani, secondo la quale il nemico può essere esterno o interno. Per nemico esterno intendo ogni potenza straniera che vuole dominare; per nemico interno intendo il tiranno che impone l’interesse particolare sul bene comune, si pone al di sopra delle leggi e corrompe il vivere civile.
Perché il mondo cattolico rifiuta questo concetto?
In questo caso preferisco parlare di Cristianesimo anziché di Cattolicesimo romano. I cristiani credono che gli esseri umani siano fratelli in quanto figli di Dio, e osservano le sue leggi e il “comandamento nuovo” del Cristo: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”, come leggiamo nel Vangelo di Giovanni. A proposito di nemico, ancor più esplicito è il Vangelo di Matteo:
Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli.
Queste parole pronunciate dal Cristo sono inequivocabili: per essere figli del Padre è necessario saper perdonare il proprio nemico. È difficile che una concezione così radicale di amore universale accolga l’idea di nemico, anche se un Padre della Chiesa come Tommaso d’Aquino ammette il tirannicidio. Io, che cristiano non sono, non ho dubbi: coloro che distruggono il vivere civile con l’inganno o con la violenza, o con l’uno e con l’altro, sono nemici da contrastare con tutte le forze. Renderli inoffensivi è un dovere morale.
In America la liberazione dal tiranno è forse ancora uno dei fondamenti del vivere civile mentre in Italia questa idea non alberga più. Come se lo spiega?
Anche gli Stati Uniti d’America, purtroppo, stanno vivendo un declino del vivere civile. In Italia questo declino si protrae da molti decenni e ha ormai distrutto il tessuto sociale. C’è stato, però, un momento molto alto nella nostra storia, in cui siamo andati vicini ad avere nella Costituzione il diritto di resistenza ai poteri arbitrari e illegittimi. Nel testo provvisorio della Costituzione si legge:
Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino.
Purtroppo questo comma non è stato approvato. Anche se la nostra Costituzione non afferma il diritto di resistenza, il cittadino, a mio giudizio, ha il dovere di contrastare ogni forma di potere arbitrario, anche per mezzo della resistenza civile. Un’eco di questo diritto e dovere si può trovare nel primo comma dell’articolo 52, “La difesa della patria è sacro dovere del cittadino” (solo nel secondo comma si nomina il cittadino in armi). Poiché la patria non è solo il territorio, difendere la patria significa anche, per esempio, resistere agli attacchi alla Costituzione.
Però attenzione: nella nostra storia c’è stato anche chi, abusando di questo nobile ideale, si è lasciato andare ad azioni violente e intollerabili: basti pensare alle Brigate Rosse. Qual è la differenza fra avversario e nemico e qual è il confine fra questi due concetti?
Il nemico è una figura che bisogna combattere perché, se vince, distrugge la libertà e la dignità della persona umana; è colui che cerca di soffocare i princìpi fondamentali del vivere civile. Contro chiunque provi a fare questo, vale l’antico adagio: Vim vi repellere licet (è lecito respingere la violenza con la violenza). Con l’avversario – si tratti di una persona o di un partito politico – si compete, ci si confronta e ci si scontra per affermare le proprie idee, ma in un regime repubblicano e democratico non si deve cercare la sua distruzione. Bobbio ci ha insegnato che la democrazia è un metodo per risolvere i conflitti politici senza ricorrere alla violenza. Contro gli avversari la violenza non è mai legittima ed è sempre controproducente.
Il partigiano Bentivegna sosteneva che uno dei momenti peggiori per chi ha combattuto nella Resistenza fosse quando era necessario uccidere dei nemici. Secondo lei, in situazioni come quella che condusse alla bomba di via Rasella contro una divisione di soldati tedeschi, è lecito anche l’omicidio?
In casi come quello di via Rasella non bisogna chiedersi se uccidere in quel modo soldati di un esercito invasore sia giusto, ma se sia utile. Nazismo e fascismo sono nemici irriducibili della persona umana. Contro di essi è necessario usare anche la violenza, ove essa si riveli efficace. Pensiamo al fallito attentato di Anteo Zamboni contro Mussolini nel 1926 o al fallito attentato di von Stauffenberg contro Hitler nel 1944. Meritano lode o biasimo? Io sono convinto che meritino lode. Nel pensiero classico, l’atto di uccidere il tiranno è stato sempre considerato l’esempio per eccellenza di coraggio civile. Il tiranno è forte e protetto; l’attentatore è solo. Quasi sempre paga con la vita per il suo gesto. D’altronde l’idea di tirannicidio è stata sostenuta anche da autori cristiani, Padri e Dottori della Chiesa. Per esempio, la tradizione scolastica riconosce il diritto alla resistenza, anche armata, fino a giungere al tirannicidio. Accenna all’argomento anche Paolo VI nell’enciclica Populorum progressio.
Lei in gioventù ha aderito a Lotta Continua: ha mai individuato nello Stato degli elementi di fascismo tali da considerarlo un nemico?
Ho aderito a Lotta Continua quando avevo diciassette anni e vi ho militato brevemente, dal 1969 al 1971. All’indomani degli articoli di Berlinguer su Rinascita, in merito ai tragici fatti cileni, mi sono iscritto al PCI e vi ho militato fino al 1984. Negli anni di Lotta Continua per me lo Stato era l’istituzione che l’8 dicembre 1968 sparò sui braccianti di Avola e che il 9 aprile 1969 sparò sui manifestanti di Battipaglia: atti di una violenza ingiustificabile.
Quest’anno, il 12 dicembre, ricorre il cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana. All’epoca, aveva la percezione che si fosse trattato di una “strage di Stato”?
Se non ricordo male, la definizione di “strage di Stato” fu coniata proprio da Lotta Continua, per mettere in risalto il ruolo degli apparati deviati dello Stato che intendevano favorire una svolta in senso autoritario. Negli anni Settanta c’erano giovani vicini alle Brigate Rosse. Esprimevano solidarietà nei confronti di esse. Non vedevano altre possibilità di lottare con intransigenza contro le ingiustizie sociali. Se ci fosse stato un forte Partito d’Azione, i demagoghi delle Brigate Rosse avrebbero trovato meno spazio. Peccato che quel partito si fosse dissolto nel 1947, lasciando un vuoto incolmabile nella vita politica del nostro paese
Uno dei pochi che aveva compreso l’importanza e le rivendicazioni dei movimenti di quegli anni era Aldo Moro, mentre la sinistra si mostrava per lo più chiusa, quasi sorda nei confronti di quelle istanze. Perché è avvenuto tutto questo?
Quando ci sono delle esigenze di emancipazione e delle passioni di libertà, i movimenti che le sostengono cercano buoni profeti; se non li trovano finiscono spesso con l’ascoltare i cattivi profeti. Bisogna considerare le biografie di coloro che diventarono brigatisti. Quando non si trattava di agenti infiltrati, le loro scelte erano dettate da delusione e risentimento. Erano ostili tanto nei confronti dello Stato quanto nei confronti della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista. Un momento significativo del loro odio è stata la contestazione contro Luciano Lama quando si recò a parlare alla Sapienza nel febbraio del 1977. I manifestanti lo consideravano un traditore e quello fu l’inizio di una violenza ingiustificabile.
Come si costruisce il nemico? Quali sono i meccanismi cui bisogna far ricorso?
Il nemico si costruisce con la parola. I maestri della demagogia sanno toccare le corde più sensibili del “demos”: la paura e l’invidia. Se il demagogo fa appello all’identità nazionale o denuncia la perdita di status sociale, ha quasi sempre successo presso le categorie più povere e meno istruite. Nessun demagogo potrebbe prosperare se non avesse un nemico da additare al “demos”. Il nemico, per funzionare al meglio, deve essere semplice e visibile, senza sfumature. La contrapposizione, per essere efficace, deve essere netta: lo zingaro, l’immigrato, l’ebreo, senza giri di parole. Non può essere un nemico astratto, come la corruzione e la tirannide o l’Élite in generale, altrimenti non si ottiene sufficiente plauso dalle masse e, di conseguenza, non è certa la vittoria elettorale.
Ho un’obiezione: ciò che dice afferisce ai periodi di crisi della politica come quello che stiamo vivendo. Negli anni Settanta, invece, il nemico era complesso, articolato, meno visibile ma, se vogliamo, ancor più pervasivo.
Gli anni Sessanta e Settanta erano altri tempi, un mondo diverso: si ragionava molto di più in termini ideologici anche se non mancavano i nemici descritti nettamente, i comunisti, per esempio. Quando Berlusconi è “sceso in campo”, infatti, ha riesumato quell’antica paura e ha ottenuto risultati eclatanti sulla base di un falso storico: che i comunisti avessero governato e rovinato l’Italia. Ci sarebbe molto da dire sui cambiamenti epocali avvenuti dai tempi della mia giovinezza ad oggi, a cominciare dalla tecnologia che ha invaso il mondo. È però importante ricordare che la classe politica di allora era in generale più colta e molti intellettuali e professionisti dell’informazione più attenti a denunciare i tentativi di ingannare i cittadini.
Oltretutto, sono concetti globali.
È vero. All’epoca c’era un pensiero più globale: negli anni Sessanta la lotta contro l’imperialismo accomunava le società occidentali a quelle dell’Africa profonda, oggi tutto questo non c’è più.
Il che è paradossale, se pensiamo che quello di oggi è un mondo globale e iperconnesso come mai prima.
Non amo la parola globalizzazione, ma un dato è certo: più si affermano il cosmopolitismo astratto e il consumismo sfrenato, più aumenta il desiderio dei popoli di rinchiudersi nelle identità particolari. Sarebbe bene avere sempre presente che coloro che possono vivere come cittadini del modo – viaggiare, fermarsi ora in un luogo ora in un altro, conoscere le lingue o, almeno, conoscere bene l’inglese, avere un’attività o una rendita che consenta questo tipo di vita e avere una formazione tale da poterla affrontare – sono pochi. La maggior parte dei cittadini conduce una vita ben diversa. Cerca una realizzazione nella sua città, spesso vicino al luogo d’origine. La contrapposizione fra nazionalismo e cosmopolitismo risale alla fine del Settecento e giunge fino a noi, col suo carico di irrazionalità e di chiusure pericolose. I movimenti nazionalisti diventano ovunque più forti: negli Stati Uniti con «America first» di Trump, in Brasile con Bolsonaro, in Germania con l’avanzata di Alternative für Deutschland, in Italia con «prima gli Italiani» di Salvini e in molte altre nazioni europee. Fra i popoli cresce il bisogno di riscoprire un’identità territoriale, linguistica, culturale, storica e religiosa.
Tuttavia, anche questo aspetto, che pure è verissimo, comporta una frattura, ad esempio fra giovani e operai: è così nella Germania divisa culturalmente fra Est e Ovest ed è così negli Stati Uniti in cui la società affluente che risiede sulle due coste vota democratico, mentre l’anima operaia della rust belt, per disperazione, si affida al trumpismo.
Sono sempre stato sospettoso delle mode intellettuali. La fine delle ideologie non l’ho mai elogiata, tutt’altro. Le ideologie sono spesso dogmatiche. Ma sono anche concezioni del mondo, basate su elaborazioni complesse. La buona ideologia è come una bussola. Non riesco a vedere l’efficacia di un’azione politica che si fonda unicamente sui sondaggi d’opinione e su impressioni contingenti. C’è ancora bisogno di ideologie forti. Sarebbe opportuno cercare di ricostruirle.
Come?
Come si è sempre fatto: con lo studio, con la riflessione sui classici, con la lettura dei libri scritti dai maestri, con il coraggio di proporre un’idea di storia e di società. La conoscenza della storia è indispensabile. Bisogna riflettere sulle cause e sulle conseguenze degli eventi e sul significato dei tempi. Come dobbiamo interpretare la storia dell’umanità? È un’evoluzione dal peggio al meglio? Esiste una storia della libertà, come sosteneva Benedetto Croce? Avere una risposta a queste domande o, quanto meno, cercarla, aiuterebbe l’azione politica. Consideriamo la storia italiana. È stata soltanto una storia di sconfitte e di delusioni, o c’è stato anche altro? Il Rinascimento, il Risorgimento e la Resistenza devono essere interpretati come movimenti che hanno riguardato una percentuale esigua di persone, o come esperienze di emancipazione che hanno avuto benefici effetti anche sulle masse?
Sia Machiavelli che Marx hanno analizzato la politica e l’attualità seguendo la bussola della storia in atto, attribuendo un ruolo demiurgico agli esseri umani. È lecito affermare che Machiavelli sia un precursore di Marx? Che rapporto vede tra i due?
Erano entrambi realisti. In un bellissimo passo, Croce descrive Marx come il “Machiavelli del proletariato”. Machiavelli non amava chi parlava di “repubbliche immaginate”; Marx combatteva gli utopisti. L’uno e l’altro analizzavano le forze sociali, ma proponevano ideali di emancipazione: Machiavelli la liberazione dell’Italia dal dominio straniero e dalla tirannide; Marx l’emancipazione dal capitalismo. Machiavelli pone al primo posto, nella gerarchia degli uomini detestabili, i distruttori delle religioni; al secondo i tiranni. Voleva un mondo libero e civile, senza corruzione. Marx, in una lettera ad Arnold Ruge, parlava del “sogno di una cosa”. Immaginava un tempo nuovo in cui l’essere umano non fosse più mezzo ma fine e potesse realizzare tutte le sue potenzialità affettive e intellettuali.
Qualche anno fa, Paolo Prodi e Massimo Cacciari rifletterono sulla crisi del nostro tempo scrivendo un saggio intitolato Occidente senza utopie. Qual è la sua concezione dell’utopia?
L’utopia è dannosa. Intesa in senso proprio, è la narrazione di una repubblica ideale che esiste solo in una terra irraggiungibile. Non abbiamo bisogno del miraggio del mondo ideale. L’utopia non invita i cittadini a impegnarsi nell’azione politica e sociale. Nel saggio che lei citava, il compianto professor Paolo Prodi parla di profezia, un concetto ben diverso da quello di utopia. La profezia invita all’azione, a mettersi in cammino verso la “Terra Promessa”, consapevoli che sarà un cammino impegnativo, a volte doloroso, che proseguirà per tutta la vita.
Se vogliamo affrontare il tema di come si può coniugare l’utopia alla profezia per costruire una democrazia compiuta, non possiamo omettere di citare don Milani.
Utopia e profezia sono concetti molto diversi. È affascinante studiarle e capire quando come e perché l’una prende il posto dell’altra. Don Milani aveva capito benissimo il potere della profezia. In un articolo che ho scritto per Paradoxa cito don Milani in quanto profeta: radicale nella critica, ma capace anche di infondere speranza. Il profeta non si limita a dire ai suoi compatrioti: “siete corrotti”. Dice: “siete corrotti ma insieme possiamo combattere la corruzione”. Parla con affetto, dà fiducia. In una delle ultime interviste, don Milani riflette sull’analfabetismo politico e culturale, domandandosi:
Come si può pensare che possano essere cittadini responsabili persone che non sono più in grado di leggere un articolo di giornale?.
Oggi la situazione è peggiorata terribilmente. Gli studi del compianto Tullio De Mauro ci parlano di un analfabetismo di ritorno che supera il quaranta per cento della popolazione.
Chi è oggi il Principe e come dovrebbe essere?
Il principe di Machiavelli è un fondatore di Stati e un redentore di popoli. Un principe machiavelliano dei nostri tempi sarebbe una persona o un partito capace di guidare movimenti di emancipazione che si pongono quale fine la dignità delle persone.
Il Principe può diventare un nemico?
Il Principe non può diventare nemico a meno che non diventi tiranno. Ma allora non è più Principe.
Centodieci anni fa nasceva Norberto Bobbio. Chi è stato? E chi è stato per lei?
È stato il mio maestro insieme a Quentin Skinner. Ha insegnato a tutti noi due regole fondamentali: pensare con chiarezza e capire prima di giudicare. Se dovessi sintetizzare il metodo di Bobbio in una parola, utilizzerei l’aggettivo “quale”. Bobbio si interrogò su quale democrazia, quale giustizia, quale libertà, distinguendo le diverse interpretazioni del medesimo concetto. Sapeva coniugare lo scetticismo sulle possibilità dell’azione politica e l’impegno civile. Era l’espressione migliore dell’azionismo. Fra il 1946 e il 1947 scrisse degli elogi splendidi dell’intransigenza e dello sdegno, la virtù senza la quale ci si infiacchisce e grazie alla quale ci si può rialzare dopo le sconfitte. Bobbio è stato un filosofo del dialogo e al tempo stesso un militante intransigente della libertà.
Qualche anno fa ha scritto un saggio intitolato La libertà dei servi. Che differenza c’è fra la libertà dei servi e quella dei cittadini?
La libertà dei servi è la libertà che hanno gli individui che volontariamente si pongono al servizio di un capo: la figura tipica è il cortigiano. Il servo sceglie di obbedire agli ordini di un padrone per trarne privilegi, soldi, fama, e così rinuncia a essere se stesso per identificarsi nel padrone. Il cittadino, invece, è la persona che rifiuta di vivere sotto la volontà arbitraria di un altro uomo, soprattutto se potente. Considera la condizione servile degradante e inaccettabile.
Uno dei limiti dell’azionismo è stato non voler scendere a compromessi. È stata anche la sua grandezza ma lo ha estremamente limitato, non trova?
Non si deve mai scendere a compromessi col fascismo, in qualunque forma esso si presenti. L’esempio migliore è quello di Ferruccio Parri. Fu intransigente con il fascismo, ma pronto a giusti compromessi con tutte le forze democratiche.
Lei ha sempre elogiato il patriottismo e condannato il nazionalismo. Che differenza c’è fra questi due concetti?
L’amore per la patria nel significato repubblicano, ha al centro il concetto di bene comune. Rifiuta lo straniero solo se è oppressore. È un ideale di emancipazione e giustizia. Mazzini affermava che si deve lottare per la libertà di tutte le patrie e non solo per la libertà della propria. Il suo patriottismo era cosmopolita, fondato sui valori della libertà politica e dell’emancipazione sociale. Il nazionalismo, oggi di moda, è la negazione del patriottismo. Prova ne sia che gli ideologi del fascismo disprezzavano il patriottismo, segnatamente quello di Mazzini. Per i nazionalisti la nazione si afferma nel conflitto con le altre nazioni. Il loro valore fondamentale è l’unità culturale o etnica della nazione, non la libertà.
Cosa sono oggi la destra e la sinistra? Come si declinano?
In Italia la distinzione fra destra e sinistra è pressoché svanita nel dibattito politico e anche nell’opinione pubblica, cosa che non è accaduta, per fortuna, in altri paesi occidentali. A distinguere la destra dalla sinistra è sempre stata l’idea di uguaglianza, come ci ha insegnato Bobbio. Integrerei tuttavia il pensiero di Bobbio con l’argomento che la sinistra dovrebbe avere un suo concetto di libertà e porlo al di sopra delle sue idee di uguaglianza. Per i liberali la libertà consiste nell’assenza di interferenza, di vincoli: la cosiddetta libertà negativa. Per la sinistra la libertà dovrebbe consistere nell’emancipazione dai poterei arbitrari, in qualunque forma essi si presentino, soprattutto nel mondo del lavoro.
Anche lei accantona la distinzione fra destra e sinistra?
Al contrario: vorrei proporla in termini nuovi. Vorrei una sinistra che sapesse usare bene concetti come patria, onore. Questi, se ben capiti, sono valori necessari per qualunque serio progetto di emancipazione. È un vero peccato che la sinistra, tranne alcune lodevoli eccezioni, non li abbia mai né capiti né amati. I brillanti risultati della povertà culturale della sinistra sono sotto gli occhi di tutti.
Una parola cruciale oggi è populismo. Per lei il populismo è un nemico o può esistere persino un populismo di sinistra?
Al concetto di populismo preferisco il concetto di demagogia. I cosiddetti “populisti” sono demagoghi che parlano alla parte più povera, fragile e meno colta della popolazione. La sinistra che io sogno non saprebbe che farsene dei demagoghi; avrebbe piuttosto bisogno di buoni oratori, persone in grado di usare la ragione e l’eloquenza.
La studiosa Chantal Mouffe ha parlato di “momento populista” di cui siamo testimoni in tutta Europa e di cui, a suo dire, dovremmo approfittare per contrastare il liberismo. Può funzionare secondo lei?
La sinistra deve riaffermare l’idea secondo cui il mercato non può autoregolarsi: il liberismo si è rivelato disastroso perché non sa produrre un progresso armonico e mette in serio pericolo i valori di libertà e uguaglianza.
La seconda parola su cui la invito a riflettere è identità. Oggi la declinano due personaggi diversissimi come Crouch e Fukuyama. Cos’è per lei l’identità? E l’assenza di un’identità forte può condurre alla ricerca di un nemico contro cui sfogarsi?
Le identità ci aiutano a vivere perché danno una coerenza alla storia di ciascuno di noi. Il bisogno identitario è tanto più forte quanto più si è deboli socialmente. Più debole è l’identità individuale, maggiore è la ricerca dell’identità collettiva. Ce lo ricorda Hannah Arendt nella sua analisi legata alle origini del totalitarismo.
Con il progressivo esaurirsi delle ideologie novecentesche, è lecito asserire che l’ultima grande contrapposizione sociale e politica sia stata quella fra Berlusconi e Prodi?
Non ci sono più grandi contrapposizioni ed è un male. Su questioni di libertà e di giustizia dovrebbero esserci, sia nella società civile, sia fra partiti. Il grigiore uniforme non aiuta la libertà.
A suo parere, Salvini deve essere considerato un avversario o un nemico?
Per me Salvini è un nemico perché incoraggia le passioni e le pulsioni peggiori degli italiani, a cominciare dall’odio verso il debole. Salvini corrompe la mentalità civile. Da questo punto di vista è paragonabile a Berlusconi ma è ancor più pericoloso. Per il solo fatto di aver costretto Salvini alle dimissioni, il governo M5s-PD-LeU merita convinto sostegno.
Anche Trump è un nemico per lei?
È un nemico da sconfiggere, come Salvini, con l’arma del voto, anche se dubito che perda le presidenziali del 2020. Comunque, anche con poche speranze di vittoria, non si deve abdicare al proprio dovere di difendere i valori a cui si crede: mia moglie e io faremo la nostra parte per sostenere il candidato democratico che vincerà le primarie.
E come si possono battere democraticamente Salvini e Trump?
Sono entrambi dei demagoghi, capaci di parlare alla maggioranza della popolazione. La differenza fra i due sta nel fatto che Trump è un demagogo oligarchico; Salvini un demagogo plebeo. Le due retoriche sono simili e bisogna saperle sconfiggere toccando le passioni popolari per indicare al popolo orizzonti diversi da quelli che Trump e Salvini propongono. In America ci vorrebbe un altro Obama o un altro Roosevelt. In Italia, purtroppo, un oratore in grado di usare bene le stesse armi del demagogo non c’è.
Quali sono, in base alla sua esperienza di professore universitario, i nemici, reali, immaginari e percepiti dei giovani?
So di sostenere una tesi impopolare, ma ritengo che il vero nemico dei giovani siano i giovani stessi, il loro vuoto interiore, la loro mancanza di profondità morale. Constato con tristezza che molti di loro sono conformisti. Non vedo nei loro occhi, né percepisco dalle loro parole valori e sentimenti profondi e generosi. Dovrebbero guardare in alto o guardarsi dentro, invece guardano in basso, guardano il cellulare. Pensano soltanto al loro presente o al loro immediato futuro individuale. Non hanno cognizione del passato né capacità di immaginare il futuro. Quando ero ragazzo, c’era l’idea di un futuro, Bob Dylan cantava The times they are a changin, Guccini cantava Dio è morto. Oggi cosa è rimasto? Le cause di questo stato di cose sono molteplici, ma fra tutte spicca la responsabilità dei cattivi maestri che hanno insegnato a diffidare degli ideali. Forse Greta Thunberg saprà mobilitare i giovani in una lotta seria di emancipazione. Lo spero.
Quest’anno ricorrono cinquant’anni dal concerto di Woodstock. Furio Colombo ha sostenuto che quella sia stata l’ultima volta che i giovani sono stati un popolo e non una massa indistinta di consumatori. La sorprende questo declino?
Questo declino non mi sorprende affatto. Il concetto di nemico dilaga anche perché non ci sono più né profeti né profezie di emancipazione. Siamo circondati da milioni di persone banali come Adolf Eichmann: persone vuote che non sanno dare significato alla loro esistenza e non aspettano altro che un nemico debole contro il quale scatenare il loro odio e la loro violenza.
Riferimenti bibliografici
Carl Schmitt, Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 2013.
Rosario Bentivegna, Senza fare di necessità virtù. Memorie di un antifascista, Einaudi, Torino 2011.
La strage di Stato. Controinchiesta, La nuova sinistra Samonà e Savelli, Roma 1970.
Massimo Cacciari e Paolo Prodi, Occidente senza utopie, il Mulino, Bologna 2016.
Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza, Roma-Bari 2010.
Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma 2014.
Chantal Mouffe, Per un populismo di sinistra, Laterza, Roma-Bari 2018.
Colin Crouch, Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo, Laterza, Roma-Bari 2019.
Francis Fukuyama, Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi, UTET, Milano 2019.
Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009.
Norberto Bobbio e Maurizio Viroli, Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza, 2001.