Il piano Colao e le politiche governative

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Il piano Colao e le politiche governative

Quando il premier Conte scelse Vittorio Colao per guidare la cosiddetta “task force” con l’obbiettivo di elaborare il piano di rilancio economico e sociale di fronte alla gravissimi conseguenze prodotte dalla pandemia, bastò leggere le poche note biografiche del personaggio per capire cosa ci aspettasse.
Ex ad di Vodafone, dove per sua stessa ammissione aveva guadagnato la modica cifra di 17 milioni di euro, con precedenti esperienze ad alti livelli presso Morgan Stanley e Mckinsey & Company. Insomma un cavallo di razza del capitalismo di questi anni. Per questo c’è poco da sorprendersi nel leggere il documento che la squadra di “esperti”, guidata dal manager lombardo, ha prodotto attraverso un documento di 121 schede, “Iniziative per il rilancio” Italia 2020-2022. L’impianto generale del testo è di robusta impostazione liberista, in linea con la logica aziendalista affermatesi in questi decenni, con una “spruzzata” di verde e un po’ di sociale alla fine. Già dal primo punto dove si prevede l’esclusione della responsabilità penale per le imprese di fronte al contagio Covid-19, troviamo delle misure estremamente emblematiche. Dalle defiscalizzazioni alle facilitazioni per l’aumento di capitale, fino alla centralità di rapporti di lavoro precari e “a tempo determinato”.

Ma quello che sorprende della proposta sono i riferimenti estremamente generici ai provvedimenti, dove anche quando si prova ad ammiccare a politiche di sostegno, il tutto non è suffragato da cifre, impegni di investimento, chiare indicazioni. Per esempio nelle pagine dedicate all’edilizia abitativa e sociale si parla genericamente di “un piano di investimenti finalizzato a a potenziare un’offerta abitativa economicamente accessibile socialmente funzionale ed ecosostenibili attraverso la messa a disposizione di immobili e spazi pubblici inutilizzati”, senza supportare tale affermazione con indicazioni precise in termini di cifre e piani concreti. A fronte si sostiene la completa deregulation in materia di appalti. Clamorosa e significativa è la totale omissione nei confronti di un settore fondamentale come quello della sanità pubblica, il cui drastico processo di ridimensionamento avvenuto in questi anni, si è drammaticamente esplicitato in questi mesi.
Alla questione sono dedicati due paragrafetti incentrati “sull’ammodernamento digitale della sanità pubblica”, con il solito corollario di anglicismi che ,peraltro, nella peggiore tradizione del linguaggio manageriale caratterizza tutto le 121 sezioni. Sulla scuola è un trionfo della linea aziendalista, con continui riferimenti allo stretto rapporto tra sistema educativo e imprese (sull’argomento ricordo l’ottimo saggio di Mauro Boarelli “Contro l’ideologia del merito”). Ovviamente non poteva mancare la centralità, per quanto riguarda le politiche energetiche; alle rilevanza “delle infrastrutture”; del resto pochi giorni fa è stato rispolverato il disastroso progetto del Ponte sullo Stretto. Il capitolo sulla pubblica amministrazione è in armonia con la visione manageriale e privatistica. Rispetto all’assunzione di personale, dopo aver concesso che negli anni si è verificato un blocco del turnover, si rileva come le assunzioni dovranno essere incentrate sul “lavoro a tempo determinato e la flessibilità”, cioè la precarietà.
Insomma, la montagna non ha partorito il classico topolino, ma un mostriciattolo che conferma lo spirito che anima questo governo, con buona pace delle generose aperture di credito a cui abbiamo assistito in queste settimane. Del resto a fronte del disastro sociale in corso (Il Sole 24 ore arriva a prevedere fino a un milione e mezzo di posti di lavoro in meno) il modo con cui l’esecutivo ha trattato la questione reddito (naturalmente completamente ignorata dalla “task force), è esemplare. Così come la tragica presa in giro che si sta evidenziando in questi giorni sul fronte dalla sanatoria dei migranti, con dinamiche ricattatorie e vessatorie che purtroppo ripropongono vicende già viste, oggi rese ancora più inaccettabili visto il contesto.
Per non parlare di scuola e sanità. Nel primo settore a tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico non si sta facendo nulla per cercare di creare i presupposti per una didattica che segni una inversione di tendenza rispetto alle croniche criticità che caratterizzano il nostro sistema educativo, dalla precarietà del personale docente, fino alle classi pollaio e l’annosa questione della agibilità degli edifici. Sulla sanità al di là degli impegni dichiarati e i primi inadeguati investimenti, per ora non si vedono chiare inversioni di tendenza. Piuttosto si propongono nuove figure come “l’infermiere di famiglia”, che non si sa bene che funzioni dovrebbe assolvere, e che comunque prevede otto professionisti per cinquantamila abitanti. Cosa potranno fare lo sa solo il ministro Speranza.
Tornando alla proposta di Colao e della sua “task force” sono eloquenti gli elogi a destra e gli imbarazzi anche nelle stesse file governative, fino alla clamorosa defezione di Mariana Mazzuccato, presente nella squadra di esperti, che si è rifiutata di firmare il documento. Tutto questo alla vigilia dei cosiddetti “Stati generali” dell’economia. Una inutile kermesse a cui parteciperanno forze politiche della maggioranza, economisti, sindacati confederali, e autorevoli rappresentanti dei vertici europei.
A proposito di Europa, si è dato molto risalto al rilevante pacchetto economico previsto dal Recovery Fund, settecentocinquanta miliardi di euro. Peccato che un articolo sul Corriere della Sera di alcuni giorni fa, metteva in risalto alcune postille essenziali presenti nel documento da dove emerge che l’erogazione dei finanziamenti sia spalmata tra il 2021 e il 2025. Quindi una dinamica dilatatoria criminale e irresponsabile di fronte alle impellenti necessità. Inoltre chi sostiene un rilancio della centralità dello Stato come antidoto alle politiche liberiste, non tiene presente la profonda trasformazione che la macchina statale ha avuto negli ultimi decenni. I “gloriosi trent’anni”con lo Stato fulcro del processo che a partire dalle macerie del dopoguerra mise in atto la ricostruzione economica e sociale dell’Europa, (peraltro sullo sfruttamento dei lavoratori almeno fino all’apertura del ciclo di lotte alla fine degli anni Sessanta), puntando su politiche keynesiane, è ormai un pallido ricordo.
Il modello che si è imposto è quello ordoliberale, secondo i dettami della Scuola di Friburgo a partire dalla svolta impressa da quella vera e propria “rifondazione liberale” sancita dal convegno “Walter Lippman” dell’agosto del 1938 a Parigi. Furono messe le basi per un ruolo dello Stato come garante delle dinamiche economiche capitalistiche di mercato e della competitività delle imprese. Questo è lo Stato con cui ormai abbiamo a che fare. Per questo c’è poco da illudersi anche in presenza di un flusso massiccio di liquidità. Se sarà lo Stato a gestirle difficilmente devierà dalla linea prestabilita, esplicitata dallo stesso piano Colao. Eventualmente si dovrebbe puntare su un utilizzo delle risorse economiche  gestite dalle municipalità, come del resto qualche sindaco ha timidamente ventilato. Una dinamica che permetterebbe ai movimenti sociali di intervenire con le proprie modalità. Ma questo scenario potrebbe determinarsi solo se le mobilitazioni che sono già in parte in campo, riusciranno a modificare i rapporti di forza.

Sergio Sinigaglia, Global project, 11-VI-2020