Chieti città aperta?

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Chieti città aperta?

Il 5 dicembre u. s. il Consiglio Comunale di Chieti, riunito in seduta solenne, ha approvato all’unanimità una mozione, presentata dal consigliere di “Giustizia Sociale” Enrico Bucci  e sottoscritta da altri due consiglieri dello stesso gruppo, avente il seguente oggetto:
Richiesta al Presidente della Repubblica Italiana di una ricompensa al merito civile da attribuire alla città di Chieti per i fatti legati a “Chieti Città Aperta” (8 settembre 1943 – 9 giugno 1944).

Merita più di un rilievo critico la ricostruzione storica giustificativa della mozione. Con tali rilievi non si vuole negare o mettere in dubbio la tragedia vissuta dai chietini e dagli sfollati; l’infaticabile e coraggiosa attività di mons. Giuseppe Venturi, del podestà Alberto Gasbarri, dell’amministrazione comunale, per lenirne le sofferenze; la generosità di gran parte dei residenti verso i profughi, l’eroismo dei partigiani, ecc..
Per la ricostruzione storica degli eventi, che per nove lunghi mesi sconvolsero la città e l’intera provincia, gli estensori della mozione hanno utilizzato soprattutto il libro di Angelo Meloni, Chieti città aperta – Relazione storica sulle vicende belliche del 1943-1944, giudicandolo “insostituibile preziosa fonte di conoscenza”. Fu lo stesso Venturi ad affidargli l’incarico, benché fosse informato che era stato capo dei servizi politici e culturali della Federazione fascista, esaltatore del genio di Mussolini, autore di articoli antisemiti su “Il Nuovo Abruzzo”, organo ufficiale del PNF della provincia. Nel libro agiografico Meloni gli eresse un “monumento”, esaltandolo oppositore del fascismo e del nazismo, difensore dei partigiani, salvatore della popolazione dallo sfollamento e della città dalla distruzione totale, per avere ottenuto dai tedeschi e dagli anglo-americani la dichiarazione di città aperta.


Finanziato dalla Cassa di Risparmio di Chieti, il libro, pubblicato nel 1947 (un anno prima, si noti, delle elezioni politiche del 1948), contribuì a consolidare il dominio, iniziato all’indomani della liberazione della città con la determinante collaborazione di Venturi e durato quasi mezzo secolo, della Democrazia Cristiana, espressione degli interessi economici e sociali della borghesia proprietaria, professionista e burocratica, che nel Ventennio, con qualche rara eccezione, aveva aderito  al fascismo.
Su Chieti città aperta e sull’operato di Venturi sono tornati soltanto di recente altri studiosi: Mario Zuccarini, Stefano Trinchese, i relatori del convegno pseudoscientifico tenuto il 20 giugno 2005 (Corinto Zocchi, Lucio Villari, Sergio Zavoli, mons. Bruno Forte), Max Franceschelli e, da ultimo, Giuseppe Perri.. Nessuno di questi studiosi ha prodotto contributi nuovi sul tema, sicchè la ricerca storica  è ancora ferma, sostanzialmente, alla ricostruzione di Meloni (da lui stesso definita, nella Prefazione, “una romanzesca pagina di storia”), ancora avvolta nel velo della retorica e della mitizzazione del presule.
È necessario sottoporre a revisione tale ricostruzione. (Mi permetto di informare il lettore che chi scrive, nel suo ultimo libro Chieti e la sua provincia – Fascismo, Chiesa, occupazione germanica, edito da Tinari, ha dato il via, in termini problematici, a tale operazione.) Soffermiamoci brevemente su due tesi fondamentali sostenute nel libro di Meloni e condivise pienamente dagli estensori della mozione: 1) Chieti si salvò dalla distruzione totale perché  Venturi riuscì a ottenere per essa il privilegio di città aperta; 2) l’arcivescovo riuscì, con la sua mediazione, a salvare la città dallo sfollamento.
In verità, anche dalla sola documentazione esibita nel libro si evince che Chieti (come Roma) non fu mai realmente “aperta”. Le due dichiarazioni, del 21 marzo e del 20 aprile 1944, prodotte solo dal comando germanico del settore adriatico e non avallate da Kesselring, non erano valide né di diritto, né di fatto: gli anglo-americani non firmarono nessun protocollo d’intesa, perché i tedeschi smilitarizzarono la città solo parzialmente (si riservarono l’uso della strada di circonvallazione, delle vie periferiche e della stazione ferroviaria per il transito e il trasporto delle truppe; esclusero dalla zona neutra il borgo Sant’Anna,  considerato settore di particolare importanza militare; mantennero in funzione le Fonderie Calvi, che producevano per il loro esercito bossoli di piccolo calibro e fasciature di rame per i proiettili). Gli inglesi diradarono, ma non interruppero i bombardamenti aerei e di artiglieria, che continuarono fino a maggio sulle strade periferiche della città.
Agli inizi di febbraio del 1944 gli alleati, avendo rinunciato alla strategia militare di giungere a Roma dal versante adriatico, (il generale Bernard Law Montgomery, comandante dell’Ottava Armata britannica, il 30 dicembre, al termine della battaglia di Ortona, era partito per preparare lo sbarco in Normandia), concentrarono le armate sul fronte di Cassino, cittadina situata in posizione strategica per il controllo delle vie di accesso alla Capitale. Anche i tedeschi spostarono gran parte dei soldati su questo fronte, sul quale, com’è noto, si accesero quattro cruenti battaglie, che si protrassero fino al 18 maggio. Il versante adriatico rimase sguarnito e fu interessato solo da una guerra di posizione tra poche divisioni nemiche. Chieti ha evitato di diventare, come Ortona, una piccola Stalingrado, o di essere distrutta come Pescara, non perché Venturi, con l’intelligente e tenace attività diplomatica, riuscì a ottenere dai tedeschi le due dichiarazioni, ma solo perché gli alleati, dopo i cambiamenti avvenuti nella campagna adriatica, non considerarono più l’espugnazione della città un obiettivo militare indispensabile.
Sull’irrealtà di Chieti città aperta concordano due autorevoli testimoni. Il podestà Alberto Gasbarri, in un articolo (La difesa di Chieti contro insulse accuse, “Il Teatino”, 13 giugno 1948)  l’ha giudicata una “santa illusione” dell’arcivescovo. Kesselring, nelle Memorie di guerra, pubblicate nel 1954, non cita Chieti (e neppure Roma) tra le città dichiarate aperte in Italia.
Altrettanto arbitraria è la tesi che i tedeschi rinunciarono all’evacuazione totale della città sempre per opera della mediazione di Venturi. In realtà vi rinunciarono per l’avvio dello spostamento delle truppe belligeranti dal settore adriatico al fronte di Cassino e per le seguenti ragioni esposte da Gasbarri nel citato articolo: avevano disponibili scarsissimi mezzi di trasporto appena sufficienti per le esigenze delle truppe combattenti; compresero che non sarebbero giammai riusciti a far uscire con la forza dalle case una popolazione esasperata di oltre 100.000 anime. Il comandante del presidio di Chieti, maggiore Heinz Fuchs, eseguendo ordini ricevuti da Roma (probabilmente da Kesselring), impose la rapida e disumana espulsione dei non residenti (in 43 giorni, dal 1 febbraio al 15 marzo 1944, furono costretti a lasciare la città, in pieno inverno e sotto i bombardamenti degli aerei alleati, 31.131 profughi, alla media giornaliera di 724 unità). Per tale decisione ricevette dalle famiglie borghesi gli applausi e perfino il dono di un orologio d’oro!
Bene ha fatto il Consiglio Comunale a deliberare la richiesta di una onorificenza al merito civile alla città per il coraggio e la dignità con cui la popolazione e le autorità civili e religiose hanno affrontato e sopportato le terribili condizioni di vita nei mesi dell’occupazione tedesca, per le vittime civili e per il tributo di sangue versato dai combattenti della Banda Palombaro e della Brigata Maiella. Ma per chiederla e ottenere il parere favorevole del Presidente della Repubblica, non c’era bisogno di travisare la storia, di esaltare oltre misura, con un linguaggio celebrativo, i meriti di mons. Venturi e perfino di esprimere giudizi benevoli nei confronti delle autorità tedesche. La loro disponibilità nei confronti dell’arcivescovo, sottolineata anche dagli estensori della mozione, era tutt’altro che disinteressata. Non ne cancella e neppure attenua le gravissime responsabilità, per le rovine e i lutti prodotti dalla tattica della “terra bruciata” e per gli atti brutali compiuti contro popolazioni disarmate e i partigiani: gli eccidi e le rappresaglie nei confronti di vecchi, donne e bambini; saccheggi e delitti; le spietate razzie di uomini, specie nel capoluogo, per il rifornimento di manodopera; l’oltraggio ai corpi dei partigiani fucilati a Bussi, sepolti sotto le macerie di una grotta fatta saltare con la dinamite, e di Adalgiso Di Pietro, giustiziato barbaramente in località Ponte Villa, presso Palena; la caccia e la cattura di ebrei in fuga dai campi di concentramento e d’internamento, per spedirli e sterminarli ad Aushwitz.
Infine, è del tutto gratuito l’ennesimo contributo dato dagli estensori della mozione al “monumento” eretto in onore di Venturi, attribuendogli addirittura il potere di avere convinto i giudici del tribunale militare alleato, nel processo a carico di Kesselring, a tramutargli la condanna a morte in carcere a vita, con una semplice dichiarazione concernente l’aiuto dato alla salvezza di Chieti. La verità storica è diversa e molto più complessa. Kesselring fu processato a Venezia, nel 1947, da un tribunale militare inglese, perché ritenuto il massimo responsabile degli eccidi delle Fosse Ardeatine e di Marzabotto, e di numerose stragi. Si salvò dalla pena di morte non per la favorevole testimonianza di Venturi, resa con una lettera inviata al suo avvocato, ma perché i giudici inglesi, commutando la pena di morte in ergastolo, col consenso di due autorevoli protagonisti della seconda guerra mondiale, Winston Churchill e Harold Alexander, intesero favorire, nel mutato clima politico internazionale contrassegnato dall’inizio della guerra fredda, l’allineamento della Germania al blocco delle democrazie occidentali, da contrapporre al blocco filosovietico.   Filippo Paziente