L’illusione (distruttiva) di puntare a una disgregazione del M5S

Attenzione: apre in una nuova finestra. PDFStampaEmail

L’illusione (distruttiva) di puntare a una disgregazione del M5S

Sinistra. La storia elettorale degli ultimi dieci anni ci dice che pentastellati, piddini e sinistra sono i tre soggetti per l’unica alleanza competitiva alle prossime elezioni
Sembra dunque che, dopo lo scontro tra Grillo e Conte, il M5S possa procedere a un rinnovamento del suo profilo e darsi finalmente un quadro di regole interne più definito.
Il discorso politico che Conte ha rivolto ai militanti e agli elettori del M5S rimane ancora generico, e tuttavia contiene alcune indicazioni: il profilo che Conte delinea è comunque quello di una forza progressista ed ecologista, che individua come proprio interlocutore la sinistra. 
Nonostante le profezie catastrofiste, l’area di opinione e di elettorato rimane oramai stabile da alcuni mesi intorno al 15% e la maggiore visibilità di Conte non potrà che rafforzare questo dato.
Tutti coloro che, tra i commentatori, e anche tra non pochi esponenti politici del centrosinistra, si sono esercitati in tutti questi anni nell’azione di dileggio del M5S, e hanno puntato sulla sua implosione, o negano con aria schifata la possibilità stessa di un’alleanza tra la sinistra e i «grillini», dovrebbero rivolgere altrove le loro facili ironie. E magari chiedersi se davvero la qualità media del personale politico nei partiti mainstream è superiore a quella espressa dal M5S.
Il discorso sul M5S non può essere separato da quello sulla storia della sinistra nel nostro paese. Se guardiamo alla storia elettorale degli ultimi vent’anni, abbiamo sotto gli occhi un movimento franoso che assume tratti catastrofici.
Nelle prime elezioni di questo ventennio (2001 e 2006) si confrontavano due blocchi elettorali di forza quasi analoga. A destra il «polo» berlusconiano sfiorava o superava la maggioranza assoluta, mentre il centrosinistra e la sinistra toccavano i 17 milioni e mezzo di voti (2001) e i 19 milioni di voti (2006).
La «frana» inizia nel 2008 (con la nascita del Pd a «vocazione maggioritaria» e la fine dell’Ulivo come coalizione plurale: sarà un caso?): dal blocco di Cs-Sinistra si distaccano circa 3 milioni e mezzo di voti.
Nel 2013, il Pd bersaniano paga poi il prezzo del suo sostegno al governo «tecnico» di Monti, e così si allontanano altri tre milioni e mezzo di elettori: il M5S, alla prima presenza elettorale, ottiene 8 milioni e 700 mila voti, almeno metà dei quali provenienti da ex-elettori della sinistra. Subito dopo inizia la micidiale «cura» renziana: i cui effetti si vedranno nel 2018, con altri tre milioni di voti in fuga, e il M5S che ne ottiene altri due in più (toccando i 10 milioni e 700 mila elettori). Insomma, in dieci anni e in tre elezioni, dieci milioni di voti in meno all’area che nel complesso possiamo definire di sinistra-centrosinistra.
Una storia fallimentare, quale quella di cui ci parlano questi numeri, non dovrebbe consigliare un atteggiamento meno arrogante?
La nuova collocazione politica abbozzata da Conte poggia su un dato obiettivo: l’attuale, potenziale base elettorale del M5S viene da una storia «di sinistra», e ad essa ci si può rivolgere con un linguaggio «di sinistra». Gli elettori che venivano da destra sono tornati «a casa» alle Europee del 2019 e lì sembrano rimanere.
Ora, se il quadro è questo, appare evidente che non vi sono alternative al progetto di costruire un’alleanza più solida, dotata di una visione comune, tra Sinistra, Centrosinistra e M5S, in vista delle prossime elezioni politiche.
E questo, sia nel caso che si riesca a fare una riforma del sistema elettorale in senso proporzionale, sia – ed a maggior ragione – nel caso in cui rimanga in vigore, come sembra purtroppo più probabile, l’attuale legge elettorale, che impone la formazione di coalizioni prima delle elezioni.
Ma davvero molti esponenti di area Pd o renziana, puntano sulla disgregazione del M5s per un «ritorno» di elettori alla «casa-madre»? Pura illusione. Il distacco di milioni di elettori nasce da una profonda frattura e il Pd dovrebbero rendersi conto dell’usura del suo stesso «marchio», e al massimo potrà tamponare le perdite.
Beninteso, è comprensibile l’obiettivo di un «recupero»” di questo elettorato di sinistra; e tuttavia emerge qui un profondo deficit di cultura politica di cui è prigioniero. Semplicemente, sembra del tutto svanito quel tratto costitutivo della migliore tradizione della sinistra italiana: uno «spirito unitario» che non ha tanto, né soprattutto, l’obiettivo di «convincere» gli stati maggiori, ma di parlare a milioni di elettori perduti.
Una vera «egemonia» si costruisce cogliendo l’elemento di “verità” che è contenuto nelle posizioni altrui. Si prenda il caso del reddito di cittadinanza: mal congegnato quanto si vuole ma si può mai contrapporgli il Jobs Act?
Ora questo partito sembra voglia avviare una fase di confronto pubblico, attraverso le cosiddette «agorà democratiche». Quel che è certo è che senza un radicale ripensamento del modello di partito, e del nesso tra partecipazione, discussione e decisione democratica, questo esperimento rischia il flop.
D’altra parte, ci sarebbe anche bisogno di una sinistra, e qui davvero domina il vuoto. Si attende l’ultimo momento per mettere su l’ennesimo cartello elettorale? Attenzione, la credibilità di queste operazioni è oramai prossima allo zero.
Si pensa che non ci siano alternative ad un «ritorno» nel Pd, o si pensa che comunque una presenza elettorale della sinistra fuori dal Pd sia utile comunque alla costruzione di uno schieramento democratico? Sono domande a cui occorrerebbe cominciare a dare una risposta, e a tempo debito.


Antonio Floridia, Il Manifesto, 21-VII-2021