«Non ci sarà pace finché i rifugiati non torneranno»

Attenzione: apre in una nuova finestra. PDFStampaEmail

«Non ci sarà pace finché i rifugiati non torneranno»

Palestina. Intervista al ricercatore palestinese Salman Abu Sitta, rifugiato a Gaza nel 1948: «Mi nascosi e vidi tutto quello che conoscevo andare distrutto: la scuola che mio padre aveva costruito nel 1920, il mulino, le case date alle fiamme. Fuggimmo a sud. La Striscia è un'invenzione: il distretto di Gaza era la metà della zona sud, 247 villaggi depopolati»
Salman Abu Sitta a Gaza arrivò nel 1948 a piedi, a dieci anni, con la sua famiglia in fuga. Il loro villaggio nel distretto di Bersabea (la futura Beer Sheva), Ma’in Abu Sitta, era stato preso d’assalto da una delle milizie paramilitari sioniste attive sul territorio.
È considerato uno dei più importanti ricercatori palestinesi. Per decenni ha ricostruito le mappe della Palestina pre-1948 e realizzato un piano pratico per il ritorno dei rifugiati in diaspora.


Gaza, prima del 1948, era uno dei luoghi e dei porti più ricchi della Palestina storica. Cosa resta oggi?
Non starò a dare statistiche di uccisi e feriti: bastano i numeri di oggi per chiamarla un’ingiustizia. Io sono una delle vittime perché sono un rifugiato a Gaza. Gran parte della mia famiglia vive ancora lì. Striscia di Gaza è un nome inventato dopo il 1948. Prima c’era il distretto di Gaza, che comprendeva metà della zona sud della Palestina storica, 247 tra cittadine e villaggi che sono stati del tutto depopolati con i massacri del 1948. In quel distretto le milizie sioniste compirono una novantina di massacri tanto che non sono rimasti villaggi in piedi a differenza della Galilea. Chi ci viveva è fuggito verso quella che oggi è chiamata Striscia di Gaza ma che non è che un pezzo del distretto dell’epoca. Oggi Gaza rappresenta appena l’1,3% del territorio. C’è una densità abitativa di 8mila persone per chilometro quadrato. Non puoi far cadere una pietra senza colpire qualcuno. Gli israeliani che oggi vivono nel sud, in quello che era il distretto di Gaza, esclusa Beersheva che era già una città palestinese, sono 150mila, lo stesso numero del più piccolo campo profughi della Striscia. Una densità di cinque persone per chilometro quadrato. 

Lei aveva appena dieci anni nel 1948. Ha vissuto la Nakba, l’ha raccontato in un bellissimo libro, «La mappa del mio ritorno», edito in Italia da EdizioniQ.
Il 14 maggio 1948 il mio villaggio venne attaccato da 24 blindati. Era un piccolo paese di 1.500 persone. Ci hanno attaccato nel cuore della notte. Sentii le donne gridare. Nel buio vedevo le luci delle milizie che ci cercavano. Mi sono nascosto e ho visto tutto quello che conoscevo andare distrutto. La scuola che mio padre aveva costruito nel 1920, il mulino, le case date alle fiamme. Nel buio vedevo il fuoco e il fumo che saliva in cielo. Hanno ucciso tutti quelli che hanno trovato. Fuggimmo verso sud. All’epoca ero un bambino, non sapevo chi fossero quelle persone. Dicevano di venire dall’Europa, parlavano lingue diverse. Non capivo perché degli sconosciuti fossero partiti da oltremare per distruggere la mia vita. Chi erano? Così ho iniziato a studiare, volevo identificare gli ufficiali che avevano attaccato il mio villaggio. Quella ricerca, una volta raggiunta Londra, si allargò e divenne la mia tesi di dottorato.

Così è iniziata una lunghissima ricerca su quello che era la Palestina prima del 1948.
Alla British Library e alla Royal Geographical Society ho trovato le mappe palestinesi e britanniche dell’epoca. Perché Israele non ha solo preso le terre ed espulso i suoi abitanti, ma ha rubato tutto quello che narrava la storia della Palestina. Dicono che abbiamo solo la tradizione orale a dimostrare cosa accadde perché siamo stati lasciati con solo i nostri vestiti addosso. Ma una documentazione esiste. Ho lavorato in Germania, Francia, a New York, alle Nazioni unite per convertire le mie memorie in un progetto documentale. Ho raccolto moltissimo materiale e scritto centinaia di articoli e di libri, tra cui Atlante di Palestina 1917-1966 e libri su com’era il mio paese prima del 1948. Eravamo 1,4 milioni allora, ora siamo 14 milioni. Siamo feriti, occupati e dispersi ma abbiamo lo stesso spirito che fiorisce ancora. Lo vedo nei giovani che incontro, ventenni, trentenni, sono stupito dalla loro determinazione. Sono migliori di come eravamo noi. Sono giornalisti, avvocati, medici, scrittori. Non c’è modo che la Palestina muoia né come idea né come paese.

Tramite le sue ricerche lei ha anche voluto dimostrare che il diritto al ritorno, oltre a essere inviolabile per la legge internazionale, è anche possibile nella pratica. Ci spiega meglio?
I rifugiati palestinesi rappresentano i due terzi dei palestinesi nel mondo. Sono originari di 560 villaggi. Oltre all’elemento umano, ovvero il fatto che non rinunceranno mai al diritto di tornare, c’è l’elemento internazionale: convenzioni e risoluzioni sostengono e proteggono il diritto al ritorno. Viene però impedito dagli stessi paesi occidentali che sostennero la creazione dello Stato di Israele e che oggi non fanno applicare la legge internazionale. Ora la domanda è: se venisse applicata, come ritorneremmo? Molti in Europa mi chiedono se voglio una Nakba ebraica. Non la voglio: i miei studi, basati sulle mappe e i dati forniti dalle autorità israeliane, mostrano che l’88% degli israeliani vive nel 12% del territorio. Nel resto ci sono piccoli kibbutz che rappresentano appena il 2% della popolazione totale, disseminati nelle zone vuote, e poi istallazioni militari. Campi di addestramento, torri di osservazioni, caserme…buona parte del territorio è sotto la giurisdizione dell’esercito. La maggior parte degli ebrei israeliani vive nelle stesse aree in cui vivevano 75 anni fa. La questione dunque non è geografica: c’è posto per i rifugiati. In Europa mi chiedono se voglio uccidere o cacciare tutti gli ebrei. È una domanda razzista che presuppone che siamo capaci solo di crimini. Il problema non è né geografico né demografico. Il problema è che il sionismo non ci vuole. Non ci sarà mai pace in Medio Oriente finché non accetteranno la nostra esistenza. A chi dice «io esisto, tu non esisti», rispondo «i palestinesi esistono, gli ebrei esistono».

Come giudica la reazione di una parte della comunità internazionale, Europa e Stati uniti, di fronte ai massacri?
I bombardamenti si stanno intensificando. È facile chiamarlo un genocidio deliberato. Avviene sotto le telecamere, con i leader occidentali che guardano e sanno che non c’è tempo da perdere. Ma non intervengono. Sarà una macchia sulle loro coscienze, su come la storia li ricorderà. Hanno il dovere di fermare questo bagno di sangue: chi resta in silenzio di fronte all’ingiustizia, ha preso le parti dell’aggressore. Abbiamo anche assistito alla farsa della conferenza del Cairo, tra paesi arabi ed europei che hanno detto poche parole per giustificarsi di fronte alle rispettive popolazioni ma che non stanno agendo. Israele li ignora, li disprezza: ha continuato a bombardare mentre loro discutevano. Stavolta temo che distruggeranno la Striscia di Gaza e la sua storia. Ma se restassero anche solo dieci palestinesi, quei dieci non rinuncerebbero al loro diritto al ritorno.

Chiara Cruciati, Il Manifesto, 25-X-2023