La cura delle acque

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La cura delle acque

 

Sono da oltre un mese negli Stati Uniti e vedo quindi le cose italiane da una certa distanza e in una prospettiva comparativa che mi consente una percezione non offuscata dal dettaglio quotidiano della polemica politica. Mi occupo anche qui di beni comuni e constato che il referendum italiano attira l'attenzione di molti miei interlocutori, accademici e non. Tutti si dimostrano colpiti dalla brutalità del tentativo con cui il governo italiano cerca di «lisciare il pelo» (qui mi dicono brown-nose) alle multinazionali mettendo sul piatto una torta così ricca. Tutti mi dicono che neppure i più sensibili alle corporation fra i senatori di questo paese (e qui in California Dianne Feinstein lo è molto) oserebbero neppure proporre tanto e tanto in fretta. Qui al saccheggio dei beni comuni come «uscita dalla crisi» certamente mirano in tanti (amministrazione Obama compresa) ma la cosa avviene in modo più graduale, senza tanto brutale piratesco coraggio. Infatti, mi dice un'osservatrice acuta, questa italiana non sarà affatto una privatizzazione ma una ennesima corporatization, ossia un trasferimento diretto (e colluso) alla corporation, entità che ormai scavalca la divisione tradizionale fra pubblico e privato (e lo sappiamo bene dopo la reazione alla crisi finanziaria). Proprio come il movimento globale per i beni comuni ma con motivazioni ed effetti opposti.
E allora in questa prospettiva più ampia emerge un'interpretazione dell'incomprensibile farsa della crisi della destra (e della balbettante opposizione della sinistra) italiana, meno legata allo scontro fra singoli ego dei nostri improbabili politici. Teniamo in considerazione infatti che in prospettiva globale l'Italia è da sempre un paese semiperiferico a sovranità limitata (da Europa, Nato, Fmi e Vaticano) perché tutte le scelte importanti sono eterodirette (economia ed esteri sono almeno dalla «seconda repubblica» in mano a due maggiordomi, rispettivamente di Fmi Ocse e Nato). Ebbene la questione di grande rilevanza economica in ballo in Italia oggi è il referendum contro la corporatizzazione finale dei servizi, ed è proprio questo movimento di popolo che preoccupa i cosiddetti poteri forti globali.
Berlusconi non è in grado di mantenere quanto promesso: di lui non ci si fida più. Di qui la fortissima pressione per lo scioglimento delle Camere, che nel nostro diritto costituzionale significa «rinvio di un anno» del referendum.

In effetti il decreto Ronchi è una «legge provvedimento» che dispiega i suoi effetti a data certa, sicché solo il referendum vinto entro il 2011 effettivamente disinnescherebbe la soluzione «corporatizzatrice» finale che sta tanto a cuore al potere globale. Insomma, dal punto di vista economico (il solo rilevante davvero) rinviare significa costringere il popolo sovrano (non sensibile agli interessi multinazionali come i suoi rappresentanti parlamentari) a chiudere le gabbie a buoi fuggiti, con gran brindisi in borsa delle corporation. Ecco spiegata la fibrillazione. Naturalmente a Camere sciolte si aprirebbe una questione costituzionale del tutto nuova nel nostro paese.
È costituzionalmente ammissibile il rinvio di un anno, provocato da organi di democrazia indiretta (Governo e Parlamento), che svuota interamente di significato uno strumento di democrazia diretta? Possono i rappresentanti del Popolo Sovrano togliere la parola al Popolo Sovrano che rappresentano? Evidentemente in caso di scioglimento anticipato delle Camere saranno gli organi di garanzia preposti al controllo della coerenza costituzionale del nostro ordinamento (Corte Costituzionale e Presidente della Repubblica) a doversi pronunciare. Noi riteniamo che si debba arrivare a un contestuale rinvio di un anno degli effetti della legge Ronchi sottoposta a referendum, in modo da evitare questo strappo costituzionale.
In altre parole, in caso di scioglimento, non a fine 2011 ma a fine 2012 dovrebbe scattare l'obbligo di «messa a gara», evitando di far fuggire i buoi prima che si possano chiudere le stalle. Ricordiamo che una volta venduti i servizi pubblici diviene difficilissimo recuperarli alla proprietà pubblica, perché scattano i requisiti di riserva di legge e indennizzo a tutela dei beneficiari privati della corporatizzazione\saccheggio. Insomma una bella questione da approfondire giuridicamente per capire quali forme tecniche debba prendere la nostra sacrosanta questione di sostanza costituzionale provocata da quella brutale struttura di provvedimento-saccheggio a data certa del decreto Ronchi che tanto colpisce gli osservatori di queste parti.
Che gli effetti politici del Referendum siano già ora una corsa bipartisan contro il tempo, per scappare col bottino prima che il popolo si pronunci, è già evidente a Torino. Infatti Chiamparino, adempiendo con zelo anche ai desiderata regionali bipartisan di Bresso e Cota, sta premendo sull'acceleratore della corporatizzazione del trasporto pubblico torinese (Gtt). Sebbene un comitato di cittadini stia raccogliendo molte firme per chiedere una moratoria almeno fino all' espletamento del referendum sul Decreto Ronchi (sulla base del quale la «messa a gara» sta avvenendo) il sindaco non sente ragioni. Ugo Mattei, Il Manifesto, 19-IX-2010