L’Europa tra passato e futuro

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L’Europa tra passato e futuro

…Se liberismo, deregulation e libertà di movimento dei capitali rendevano difficilissima una politica economica degli stati e la interdicevano anche alla Ue, chi diventa la forza egemone dello sviluppo dell’Unione Europea?

La crisi aperta dalla catastrofe americana dei subprimes del 2008 e la crisi greca di oggi lo hanno evidenziato brutalmente. La sfera della decisione politica avendo consegnato da un lato alle priorità monetarie dall’altro al gioco dei mercati la maggior parte dei poteri che deteneva sull’economia, non  è stata più in grado né di accompagnare né di correggere sviluppo o declino dei suoi paesi membri. L’accrescersi del debito greco, per gli squilibri crescenti dell’economia e una fiscalità ridicola, mentre l’Europa lasciava le sue banche specularvi a man salva, ha spinto quel paese all’insolvenza. Ma quando questa verità esplode, chi si trova davanti la Grecia? Non il Consiglio europeo né la Commissione, e tanto meno il Parlamento europeo. Si è trovata davanti l’asse franco-tedesco, le cui banche erano le sue più grosse creditrici.

Quale delle istanze europee ha incaricato Francia e Germania di affrontare la crisi greca? Nessuna. Alle spalle di Francia e Germania sono stati una Bce, il cui governatore era sulla via d’uscita per essere sostituito da Mario Draghi, e il Fondo Monetario Internazionale, diretto, dopo le sfrenatezze sessuali di Dominique Strass Kahn, dalla ex ministra francese delle finanze Christine Lagarde. Chi dunque della Ue dava autorità al presidente Sarkozy e alla cancelliera Merkel di decidere sul fallimento di un paese, sulla sua eventuale uscita dall’euro, sulle condizioni per evitare l’una e l’altra catastrofe (neanche prese in considerazione dai tentativi ripetuti di poderosi trattati)?

Il potere delle grandi economie, che avevano prestato alla povera Grecia. Un potere sancito dalle agenzie di rating. Esse hanno stabilito che la Germania, con i suoi surplus, è il solo paese a tre A che può accedere al credito al tasso del 2,5%; la Francia ha le tre A in bilico e deve pagare un tasso del 3%,  l’Italia ha solo due A intere e deve pagare circa il 7% mentre la Grecia, sprovvista di buoni voti, deve pagare un tasso dal 24% al 30%, i creditori essendo così poco certi delle sue possibilità di rimborso da praticare interessi che costituiscono già parziale rimborso di capitale. Sono dunque la Germania e la Francia a porsi di fronte alla Grecia, debitrice soprattutto alle loro banche, e sono loro a predisporne il piano di salvataggio: tagli ai salari, tagli alle pensioni, vendita di tutti i beni pubblici possibili, imposte leonine e ventennali controlli. In cambio, il dimezzamento del valore dei titoli greci detenuti dalle banche private.

Quando il premier greco Papandreou, che ne aveva preso atto, ha dichiarato l’intenzione di sottoporre il piano a un referendum popolare, dato l’impegno enorme che esso costituiva per ogni cittadino greco, è venuto giù il mondo. Era un tradimento dell’Europa. Quando mai il popolo greco avrebbe votato il suo strangolamento? Già i cittadini del continente bocciavano di regola gli accordi europei loro sottoposti, e i governi preferivano farli passare dalle più docili maggioranze parlamentari. In breve, Papandreou e il parlamento hanno ritirato la proposta, il governo è caduto, una coalizione di unità nazionale porterà la Grecia a rapide elezioni. Questa è la fotografia esatta della democrazia in Europa. Il prossimo paese che si troverà nella medesima situazione sarà l’Italia.

A quale Europa si troverà di fronte? La stessa. Se i mercati - cortese  astrazione per non dare nome ad assai concrete proprietà - hanno avuto ragione degli Stati, va da sé che hanno liquidato il peso degli schieramenti politici. Quale Italia si troverà davanti a questa Europa?

Le residue sinistre radicali sono state escluse dalla rappresentanza grazie a una legge elettorale trappola e ai loro limiti - primo di tutti non aver esaminato i cambiamenti del capitale e del lavoro, cioè le dimensioni della finanza e la frantumazione del lavoro dipendente. Gli eredi democratici dell’ex partito comunista, confusi e pentiti di essere stati tali, sono balzati a piedi uniti sulla linea liberista cui i governi di centrosinistra li avevano consegnati, senza neppur arrestarsi sul fronte keynesiano. I socialisti in Italia non esistono più. Il centro - ammesso che abbia una presenza simbolica - non è che una destra presentabile. La malattia più grave è che il paese s’è affidato, per ben tre volte dal 1994, dunque con cognizione di causa, a quel crescente margine di confusa illegalità e corruzione che è stato il berlusconismo ed è parso a metà degli italiani quasi una disinvolta furberia, giustificata dal fiasco delle sinistre. Silvio Berlusconi e i suoi partiti sono stati questa nuova veste della dominazione democristiana, cui solo la sinistra della medesima s’è rifiutata. E le inclinazioni anticostituzionali del berlusconismo hanno trovato utilmente un alleato nel populismo della Lega, che è antieuropeo perché bassamente “sovranista”. Un fascismo inquieto e in via di qualche conversione non ha avuto la tempra di reggere alla coalizione di Berlusconi.

La pulizia che, sperabilmente,verrà fatta con la partenza di Berlusconi darà spazio a una destra liberista dura, che si intenderà con quella franco-tedesca per una terapia d’urto all’enorme debito pubblico italiano, il più ingente d’Europa. Ci attendono lacrime e sangue, e ce li meritiamo.

A moderarla può essere una riflessione dei primi padri dell’Europa, che stanno esprimendo alcune preoccupazioni per una deriva che trascinerebbe, dopo i paesi della periferia, anche il centro – la ricetta greca non potendosi estendere senza indurre una recessione dalla quale nessuno potrebbe salvarsi. La urgenza di mettere un limite all’espansione e alla dominazione della finanza, attraverso una tassazione consistente delle transazioni, la possibilita della Bce di acquistare sui mercati secondari parte dei debiti pubblici riducendo subito le razzie dei mercati, una riforma fiscale di tutti i paesi del continente e l’emisissione di bond per rilanciare una crescita oggi soffocata – nella linea delle nostre proposte – allenterebbe i vincoli che la sfera politica si è imposta e ne permetterebbe un inizio di riarticolazione antiliberista. Le scadenze elettorali  imminenti in Francia e i Gemania, il – per ora assai confuso – rimescolamento delle carte in Italia, aprono alcuni spiragli a una modifica che non si limiti a orazioni di duro risanamento dei bilanci, con una risorgenza delle mortificate sinistre.

Dico risorgenza perche oggi come oggi,  la sola risorsa politica e morale, cui farebbe bene a  collegarsi subito quel che resta di sano nel sistema rappresentativo, sono i movimenti che si estendono su scala mondiale, sfiorando persino il santuario americano di Wall Street, e per l’Italia promotori dei referendum per l’acqua e i beni comuni, ecologisti, contrari al nucleare, per le piccole opere - fra le quali il risanamento idrogeologicio del paese - e, sperabilmente, per la cultura. Nel welfare preso a fucilate, scuola e sanità, la protesta non è mai cessata e ha la sua massa critica. Queste aperture delle coscienze e della voglia di battersi dovranno anche fare un salto, moralmente doveroso, verso una solidarietà con i paesi che sono state nostre colonie e che abbiamo lasciato, o forse indotto, alla disperazione della fame, delle malattie e delle guerre tribali.

Il fatto che anche in paesi economicamente meno disastrati siamo oggi a “crescita negativa” - come si usa dire – implica ripensare che significa “crescita”, da dove possono venire occupazione, redditi, tecnologie. La perdita di lavoro e la precarietà sono malattie della società; non solo diminuiscono le entrate pubbliche, elidendo i margini del welfare - educazione, salute, previdenza - ma  scompongono ogni tensione di libertà e eguaglianza e solidarietà, i soli valori sicuri che il nostro continente ha prodotto per le sue genti.

La politica vive in questi soggetti e questi temi di fondo. Le proposte che il nostro dibattito sulla “rotta d’Europa” ha sviluppato sono una prima rivolta contro le tendenze, che possiamo senza esagerazione definire criminali, del capitale finanziario, della accumulazione sempre più ineguale, di un rigore verso i poveri che con la austerità non ha niente a che vedere.

E’ un primo ed elementare cambiamento della rotta attuale europea.  Si può osservare che è un programma così ragionevole da ridare il senso perduto alla parola “riformista”. Ma è una svolta in direzione di una convivenza umana meno feroce, cui ci siamo troppo facilmente rassegnati.

Rossana Rossanda, Il Manifesto on line, 12-XI-2011