La Liberazione e l'utopia Europa

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La Liberazione e l'utopia Europa

La ricorrenza del 25 aprile non può essere esercizio di nostalgia per ciò che non si è verificato, ma occasione di riflessione e di ripensamento per quello che la Resistenza e gli sviluppi posteriori alla Liberazione possono ancora oggi insegnarci, a cominciare da quella «rieducazione morale» che era nei voti dei combattenti per la libertà.

Anche questo 67mo anniversario della Liberazione cade nel momento di una grave crisi politica, economica e morale del paese, forse la più dura e insidiosa che stiamo vivendo da quel lontano 25 aprile del 1945. Certo, la distanza tra le aspettative di quella giornata e la realtà odierna è abissale. Allora, dopo i venti mesi di lotta partigiana e di Resistenza l'alba della Liberazione fu vissuta come l'inizio della catarsi, come la possibilità di fare piazza pulita di un regime dispotico e corrotto che era naufragato nella più rovinosa delle sconfitte militari e di avviarsi sul cammino della democrazia con la convinzione di potere eliminare strada facendo le molte eredità trasmesse dal regime fascista. Così non è stato. Nessuno dei protagonisti della lotta di Liberazione si illudeva che dare vita al nuovo stato democratico potesse essere opera di breve periodo, il compito di una generazione che traeva forza per l'appunto dalla spinta delle Resistenza. Il processo di rinnovamento dello stato e prima ancora della società si è arrestato alla prima fase, quella della Resistenza. Ricercare le cause di questo incompiuto processo di rinnovamento richiederebbe una analisi molto complessa dei fattori interni e internazionali che amputarono le potenzialità della lotta di Liberazione. Finora, forse, più che gli storici è stata la letteratura a dare una risposta agli interrogativi che dobbiamo porci a proposito dei condizionamenti e dell'esito incompiuto del rinnovamento appena avviato, pensiamo alle riflessioni di Corrado Alvaro o di Carlo Levi. Un grande scrittore francese, che era stato un grande animatore della Resistenza, aveva formulato nel corso della lotta in maniera sintetica ed efficace le aspirazioni per il rinnovamento della Francia che, senza avere conosciuto propriamente il fascismo, aveva vissuto la crisi e il degrado della Terza Repubblica, che avrebbero potuto essere fatte proprie anche dalla Resistenza italiana: «Noi vogliamo realizzare senza indugio - scriveva Camus - una vera democrazia popolare e operaia, dando vita a un'alleanza nella quale la democrazia recherà in dote i principi della libertà e il popolo recherà la fede e il coraggio, senza i quali la libertà non è niente. Noi pensiamo che qualunque politica intenda escludere la classe operaia sia destinata al fallimento».

La ricorrenza del 25 aprile non può essere esercizio di nostalgia per ciò che non si è verificato, ma occasione di riflessione e di ripensamento per quello che la Resistenza e gli sviluppi posteriori alla Liberazione possono ancora oggi insegnarci, a cominciare da quella «rieducazione morale» che era nei voti dei combattenti per la libertà.

Se ripensiamo agli anni della ricostruzione non possiamo non considerare lo slancio, la partecipazione corale con la quale essa fu realizzata in un lasso di tempo molto inferiore a quanto si poteva supporre alla luce dell'entità delle distruzioni che l'Italia aveva subito. Già nel 1947, al suo ritorno in Italia, Salvemini era rimasto impressionato dalla rapidità con la quale erano stati ripristinati i servizi essenziali. Certamente l'Italia di allora era una società molto meno complessa di quella odierna e molto più concentrata sui bisogni primari. Ma era un'Italia che non era stata fiaccata dalla catastrofe della guerra e in cui aleggiava quello spirito collettivo senza il quale la nostra società non avrebbe attraversato gli anni bui dell'occupazione nazista e del fascismo di Salò. La Resistenza non va mitizzata ma questo risveglio di coscienza collettiva non va dimenticato perché da esso è nata la spinta alla ricostruzione.

Per costruire oggi dalle macerie del berlusconismo, rovinoso come una guerra perduta, occorre tornare a quello spirito di rinnovamento che guidò la società italiana nella crisi del '43-'45, attingendo ai punti fermi e ai valori che furono consegnati nella Costituzione repubblicana, che di quella stagione è rimasta la conquista più alta e più duratura, al di là dell'avvicendarsi delle generazioni e dei tentativi di eroderne le fondamenta e i principi tradendo l'idea della rappresentanza politica con i manichini del partito-azienda.

Soltanto per questa via sarebbe possibile ricomporre quello scollamento tra popolo e istituzioni che ha creato un vuoto nel quale possono trovare sfogo pericolose pulsioni tecnicistiche, che con il pretesto e anche con le buone intenzioni di supplire al deficit della politica contribuiscono per conto loro a espropriare i cittadini delle possibilità di partecipazione implicite nella Costituzione e corroborate dai momenti migliori della Repubblica. La responsabilità storica di chi ci ha trascinato nella miseria della crisi attuale, al di là dei fattori internazionali che passano sulla testa di tutti, è consistita principalmente nell'avere deresponsabilizzato i cittadini e fatto inaridire forze politiche e forze sociali svuotandole delle capacità di intervento e mortificandone gli stimoli realizzatori, le manifestazioni di coraggio e di solidarietà anche di fronte ai rischi mortali senza i quali la Resistenza non sarebbe approdata alla Liberazione.

Se non potessimo attingere a un patrimonio di esperienze collettive che non possono rivivere solo nel ricordo, ma che devono essere parte integrante di una memoria sempre presente nel nostro modo di essere cittadini e se non fossimo convinti che questi diritti ce li siamo conquistati con la lotta di Liberazione, oggi avremmo una speranza in meno di poter uscire dalla crisi del presente con la riaffermazione del nostro diritto di vivere in una società democratica che ci consente di allargare e migliorare le nostre generali condizioni di vita e di proporle e realizzare anche per chi arriva da lontano e ci chiede di condividere la nostra sorte e quelli che sono per ora i nostri privilegi. Risalire allo spirito della Resistenza vuol dire anche ripensare all'Europa che avevamo sognato in opposizione alla realtà del Nuovo ordine che ci era stato imposto da fascismo e nazismo. Vogliamo tornare ad essere cittadini d'Europa che immaginavamo di essere quando con la lotta partigiana e la Resistenza contestavamo l'oppressione e la prepotenza delle superpotenze dell'Asse. Dobbiamo tornare a volere che l'Europa non possa essere più teatro di strategie di potenze e di scontri di potentati economici e finanziari, che strangolano i paesi meno sviluppati o anche solo meno fortunati. Tornare a ripensare l'Europa in un'ottica di inclusione e non di esclusione, senza vincitori e vinti: ecco come vorremmo rileggere il 25 aprile. Utopia, si dirà, nella convinzione che senza ambizioni utopiche non si riesce a realizzare neppure la più modesta delle riforme. Enzo Collotti, www.unioneinquilini.it, 25-IV-2012